Dovette apparire strano, scandaloso, addirittura macabro, nei primi secoli della nostra èra, che la nuova religione cristiana adottasse come segno distintivo la croce, da tutti conosciuta come il più crudele strumento di morte. Farebbe meno impressione se oggi una religione prendesse come vessillo una forca da impiccati, con tanto di cappio. Di questa strana anomalia troviamo un’eco nella Prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, pazzia per i pagani”(1 Cor 1,23). Per noi la croce è ormai divenuta un ornamento, quando non un ciondolo d’oro da esibire anche sul petto di chi non ci crede affatto. Quanti calvari ha cambiato la nostra croce lungo i secoli! Quanti eserciti ha guidato, non solo nella terra dove fu piantata, ma anche tra le nazioni cristiane, per combattere e sterminare fratelli di fede!
I primi cristiani l’avevano scelta come segno di vita, ma ritornò presto ad essere segno di morte anche nella storia cristiana. Con la festa di oggi la riscopriamo come strumento insostituibile della nostra salvezza, perciò parliamo di “esaltazione”. Così l’aveva vista Gesù, che la imporporò del suo sangue con una morte straziante. Giovanni ce ne spiega la ragione nel brano del Vangelo di oggi. Siamo riportati a Gerusalemme, nella notte in cui un timido fariseo, di nome Nicodemo, autorevole membro del Sinedrio, andò a trovare Gesù per conoscere meglio la sua dottrina così originale. Gesù lo accolse con simpatia e amicizia e gli spiegò che per entrare nel regno di Dio, da lui annunciato, bisognava nascere un’altra volta. Sì, bisognava nascere per opera dello Spirito santo nel battesimo; questo consentiva di cambiare il modo di pensare umano, grazie alla fede nelle sue parole: “Quel che è nato dalla carne è carne, quel che è nato dallo Spirito è spirito” (3,6).
La logica umana cioè non basta, bisogna accettare il modo di pensare di Dio. L’insegnamento di Gesù non è una filosofia inventata dagli uomini, è una rivelazione portata dal cielo, e siccome “nessuno è mai salito in cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”, l’uomo deve impararla da lui. Egli è venuto da Dio per annunciarla, viverla e spiegarla agli uomini. Si tratta del progetto che Dio ha concepito per la salvezza del mondo, progetto che Egli aveva già annunciato nell’Antico Testamento con parole e segni profetici. Paolo lo spiegherà in maniera quasi brutale, così: “Dio ha dimostrato stolta la sapienza di questo mondo. Poiché infatti nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i giudei chiedono i miracoli e i greci cercano la filosofia, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,21-23).
Il Gesù di Giovanni aveva espresso questo concetto con un esempio tratto della Bibbia ebraica, più adatto a far capire a Nicodemo e ai giudei, primi destinatari del messaggio, lo scandalo di cui parla Paolo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo”. L’episodio ci è raccontato nel libro dei Numeri (21,4-9) come abbiamo sentito nella prima lettura di oggi. Mosè fece innalzare una specie di stendardo in cui la figura del serpente, strumento di morte, diventava segno di vita. Gli ebrei dell’Esodo si erano portati dietro quel trofeo e lo avevano collocato nel tempio di Salomone come ricordo e ammonimento; fu distrutto dal re Ezechia nel 716 a.C., perché era diventato una specie di totem, davanti al quale si bruciava incenso (2 Re 18,4).
Giovanni utilizza quel simbolo tipologico per dire tre cose: per indicare la decisione misteriosa di Dio, l’elevazione di Gesù sulla croce e la sua potenza salvatrice. Il paragone sta tutto qui: la crocifissione annunciata da Gesù è vista come “elevazione” che dona salvezza, secondo un preciso disegno di Dio che deve attuarsi. La croce è considerata come “elevazione” di Cristo, perché da qui ha inizio il suo dominio salvifico sul mondo. Lo ripeterà ancora più chiaramente lo stesso Gesù alla vigilia della sua passione: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,31). Non bisognerà aspettare la risurrezione per vincere lo scandalo della croce: il trionfo di Gesù è già nella sua morte di croce, che manifesta tutto il suo potere salvifico. È l’ora fissata dal Padre per il passaggio doloroso dal mondo al cielo (Gv 13,1), l’ora in cui si manifesta tutta la sua gloria di salvatore del mondo, perché “chiunque crede in lui ha la vita eterna”.
La vita divina racchiusa in lui ci viene donata, alla maniera di quella del chicco di grano che muore nella terra per dare esistenza alla spiga; qui la morte è condizione indispensabile di vita (Gv 12.23-24). Questo messaggio ha la sua radice nell’incomprensibile amore che il Padre nutre nei confronti del mondo: “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito”. Egli colma in questo modo l’abisso aperto dal peccato tra Lui e l’uomo. Giovanni lo ripete nella sua Prima lettera: “Dio è amore! In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi per primo, e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,10). La croce ha la sua ultima ragione nell’amore che Dio ha per il mondo. Non poteva dare di più. Qualunque padre o madre darebbe la propria vita al posto di quella del figlio. Dio, che non poteva morire, ha dato di più: ha fatto diventare uomo suo Figlio e lo ha sacrificato, con immenso strazio, per tutti noi con una morte tra le più crudeli inventate dalla cattiveria umana.
Con questo, Dio ha dimostrato inequivocabilmente di volere la salvezza, non la rovina del mondo; la salvezza di tutti, non solo di alcuni. Dio non vuole affatto condannare, vuole solo salvare. La rovina di alcuni sta nella loro libera scelta. Il sole sorge per tutti, ma ci si può nascondere e rifiutare la sua luce e il suo calore. Il giudizio di salvezza e di condanna ciascuno se lo confeziona nel proprio cuore con l’accettazione o il rifiuto dell’immenso dono di Dio. La condanna è un’autocondanna, perché è rifiuto consapevole della salvezza. Dio ha fatto tutto ciò che poteva e molto di più, ma la sua salvezza è una proposta, non un’imposizione che distruggerebbe la libertà umana. La croce è questa grande lezione d’amore e di gloria che Dio ci ha donato.