Facendo politica, Maria Rita Lorenzetti, la presidente della Regione, non sempre riesce a fare quello in cui crede. Certo però crede in quello che fa. E lei il 2002 lo ricorderà quasi sicuramente per la firma del cosiddetto Patto per lo sviluppo e l’innovazione dell’Umbria, quando, ad inizio estate, intorno al tavolo della Giunta regionale, dopo un lungo ed estenuante periodo di gestazione, si sono riuniti imprenditori, sindacalisti, banchieri e responsabili delle istituzioni formative per sottoscrivere un lungo elenco di impegni che ha come obiettivo la crescita della regione. Per la Presidente della Giunta era un passaggio nodale, questo del Patto, per dare gambe al suo programma di governo, che aveva come slogan “Fare squadra”. A qualche mese dalla firma di quel ponderoso documento, qualcuno dei soggetti coinvolti già mugugna, perché il Patto non decolla. Così il 2003 – e questa è la prima sfida che attende la Presidente e la sua Giunta – dovrà essere l’anno dell’avvio concreto di quanto dispone quella che, altrimenti, rischia di rimanere una “carta delle buone intenzioni” o, peggio, un elenco di obiettivi falliti. Per il resto il 2002 è stato un anno meno piatto di altri sotto il profilo della politica in Umbria. Intanto perché in consiglio regionale non c’è più una sola opposizione ma ce ne sono due. A quella, per così dire tradizionale, di centro destra (An, Forza Italia e Udc) si sono aggiunti i consiglieri Carlo Ripa di Meana (verde ecologista), Maurizio Donati (ex Pdci, ora semplicemente comunista) e Moreno Finamonti (dei Democratici, ma non confluito nella Margherita). Loro si definiscono “opposizione di centro sinistra”, e già questa, che lo si voglia o no, è una novità politica per l’Umbria, dove anche Rifondazione comunista è in maggioranza. Con la loro uscita dalla coalizione che sostiene la Lorenzetti, la maggioranza scende da 20 a 17 consiglieri, mentre le opposizioni ne contano in tutto 13. Numeri che, politicamente, dicono e non dicono, se non si contestualizzano rispetto ai due schieramenti. Quello di maggioranza per approvare in aula le sue leggi sarebbe comunque in una botte di ferro anche con 17 consiglieri, se fosse compatto. Ma compatto non è, e nel 2002 i mal di pancia di Rifondazione comunista (che del fare opposizione dal di dentro ha fatto una sorta di marchio di riconoscimento) sono sembrati aumentare. Tanto che l’anno si è chiuso con una crisi interna alla maggioranza, dopo che il Prc, in disaccordo con gli altri partner (ricordiamoli: Ds, Sdi, Margherita) su varie questioni, aveva lasciato il resto della coalizione in balia degli attacchi delle opposizioni mentre in Consiglio regionale si stava votando una legge importante come quella sul diritto allo studio. Poi la crisi è rientrata, e con la mediazione del segretario umbro della Quercia, Fabrizio Bracco, è stato messo nero su bianco che per Rifondazione comunista è in vista un futuro di “maggiore visibilità” in maggioranza e, soprattutto, in giunta (con Vinti, attuale capogruppo regionale e segretario umbro del Prc, promosso assessore? Si vedrà). Sul fronte opposto, i tre neo-oppositori non possono essere sommati in maniera semplicistica a quelli “storici” della Casa delle libertà, avendo loro stessi sottolineato che sono “distinti e distanti” dal centro destra: che, a sua volta, conserva al proprio interno, ed all’interno dei partiti che lo compongono, fermenti e frizioni piu o meno palesi. Insomma, il quadro politico in Umbria non è statico. Questo nell’anno in cui si progetta il nuovo statuto regionale, quella “costituzione” locale che deve dettare nuove regole e fissare nuovi paletti per il corretto fluire della vita politica, e non solo, della collettività umbra. Ora, a fine 2002, i nodi sono arrivati al pettine, e riguardano il sistema elettorale e, soprattutto, il tipo di elezione del presidente della Giunta. Certo, l’operato della Lorenzetti negli ultimi due anni e mezzo, con il suo attivismo e la sua capacità di impersonificare il governo della Regione, ha dato un grosso impulso al partito, invero trasversale, di coloro che propendono per l’elezione diretta del cosiddetto “governatore”. Ma con un federalismo incombente che, nella versione bossiana, sembra assumere sempre di più i contorni di una penalizzazione per chi amministra una realtà locale, chi avrà il coraggio di chiedere voti direttamente ai cittadini per poi diventarne l’esattore?