L’episodio narrato oggi manca nella maggioranza codici greci antichi. La maggioranza dei Padri non lo commenta perché non l’ha conosciuto. Ci viene tramandato da un solo codice maiuscolo occidentale (cod. D) del V secolo. Gli esegeti che lo hanno studiato in lungo a largo dicono che non è scritto nello stile giovanneo, ma piuttosto nello stile di Luca, l’evangelista della misericordia di Dio. In qualche codice è inserito dopo Lc 21,38, dove c’è una introduzione che richiama quella del nostro racconto: “Tutto il popolo veniva a lui di buon mattino nel tempio per ascoltarlo”.
Una cosa è certa: l’episodio risale sicuramente a Gesù, perché nessuno nella Chiesa avrebbe potuto inventarlo, visto che la disciplina ecclesiale dei primi secoli considerava l’adulterio un peccato gravissimo, da scontare con un lungo periodo di penitenza pubblica. L’atteggiamento di Gesù contrasta con questa pratica penitenziale, tanto che viene il sospetto che sia stato cancellato in molti codici proprio per tale motivo. Chiunque, infatti, partendo da questo racconto, avrebbe potuto contestare alla Chiesa del tempo una disciplina in contrasto con l’atteggiamento di Gesù, che aveva così facilmente perdonato la donna.
Il racconto è ambientato nei cortili del Tempio di Gerusalemme dove i rabbini erano soliti impiantare la loro scuola per istruire i pellegrini che venivano alla festa; questi avevano tempo e si affollavano nel tempio, alcune volte bighellonando. Anche Gesù sfrutta l’occasione per annunciarvi il suo vangelo fin dal mattino all’alba, quando si aprivano le porte del santuario. La notte era solito passarla a Betania o sul monte degli Ulivi, fuori della confusione della città. C’era molta gente che frequentava la sua scuola, perché era un maestro originale che sapeva dire cose nuove. Una mattina però la sua lezione è interrotta dall’irrompere improvviso, nella cerchia numerosa degli ascoltatori, di un gruppo di scalmanati che trascinano una donna sorpresa in adulterio. La legge mosaica puniva con la pena di morte per lapidazione (Dt 22,21) sia la donna sia l’uomo sorpresi in fragrante adulterio almeno da due testimoni (Dt 19,15). Solo che l’uomo riusciva sempre a dileguarsi e la donna rimaneva l’unica colpevole da giustiziare. Era lo scotto da pagare in una società ferocemente maschilista.
Gli accusatori sapevano che nessun tribunale ebraico era autorizzato ad emette ed eseguire una sentenza di morte, che spettava solo all’autorità romana, come accadrà per la condanna di Gesù. Sperano tuttavia di potere eseguire un linciaggio popolare, che sarebbe sfuggito al controllo di ogni autorità. Sarebbe stato un bel colpo per gli avversari di Gesù poterlo accusare di abuso di autorità e far ricedere su di lui la responsabilità di quel linciaggio. L’incidente accaduto a quella donna era dunque una ghiotta occasione per i nemici giurati di Gesù per tentare di invischiarlo in quella squallida vicenda. Se il maestro avesse assolto la donna, lo avrebbero accusato di lassismo e di violazione della legge; se l’avesse condannata, avrebbe perduto la sua fama di uomo misericordioso nei confronti dei peccatori e sarebbe incorso nella violazione della legge romana.
Non è la prima volta che scribi e farisei tendono insidie a Gesù per farlo cadere in fallo e poterlo poi accusare e condannare. Finora Gesù ha sempre smascherato la loro ipocrisia e li ha superati in furbizia. Resta il fatto che la cattiveria umana è una fabbrica inesauribile di iniziative criminali in ogni tempo. Si inventa di tutto per incastrare il proprio avversario o per giocare sulla buona fede delle persone. Gesù china la faccia a terra perché si vergogna per loro e per quella creatura; si sente doppiamente umiliato da quella scena senza pudore e senza rispetto. È mortificato dal modo spregevole con cui viene trattata quella donna che è pur sempre una persona, ridotta ad uno straccio sporco buttato davanti a tutti per raccogliere disprezzo. I suoi ascoltatori sono rimasti infatti ammutoliti.
Gesù si sente offeso e strumentalizzato perché stanno giocando la sua reputazione sulla pelle di quella povera donna che non ha nulla a che fare con lui. Lei serve solo come pretesto per tentarlo e per rovinagli la reputazione. Istintivamente scrive in terra con un dito, per nascondere il suo profondo disagio. Non scrive nulla di preciso, ma quei geroglifici gli servono per sottrarsi agli sguardi maliziosi ed ipocriti di quegli accusatori improvvisati, e per nascondere il suo profondo disagio. Quando quelli insistono per avere una risposta, alza finalmente il capo per dire loro: ‘Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei’, poi si china di nuovo a scrivere sulla polvere. San Girolamo pensava che Gesù scrivesse i peccati degli accusatori; è più logico pensare a scarabocchi di evasione.
La risposta di Gesù ha colto tutti di sorpresa: la palla che avevano gettato è rimbalzata violentemente su di loro e li ha spiazzati. Quelle parole sono un dito puntato contro la coscienza di ciascuno, ne rimangono sconcertati e spaventati. Perciò preferiscono allontanarsi con la coda fra le gambe e la vergogna sul volto, a cominciare dai più vecchi, quelli più saggi o quelli più carichi di colpe. Rimane Gesù con la donna, soli. È sparito perfino il pubblico degli ascoltatori raccolto precedentemente attorno al maestro. Sant’Agostino commenta: “Sono rimasti la misera e la misericordia”.
Gesù può finalmente alzarsi in piedi per liberare la donna dalla sua umiliante situazione di degrado e restituirle la sua umana dignità. Suonano solenni e rassicuranti le sue parole pronunciate nel Tempio, nella casa del Padre che lo ha inviato a salvare, non a condannare (Gv 3,17). Esse forano i secoli per giungere a noi come un grido di speranza e di misericordia: “Donna, dove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?Neanche io ti condanno; va’ e non peccare più”. Quel appellativo di “donna”, pronunciato con amore e rispetto, riscatta tutte le umiliazioni subite da quella creatura finora disprezzata e mortificata. Se Gesù non ha giudicato e non ha condannato, nessuno si deve sentire autorizzato a farlo al posto suo, e tanto meno a nome suo.