Giovanni non finirebbe mai di raccontare. Ha tanti ricordi nella sua memoria e nel suo cuore, ma sa che non può scrivere tutto, ci vorrebbe una biblioteca come quella di Alessandria d’Egitto, la più grande e famosa del suo tempo (21,25). Giunto alla fine del suo scritto però si accorge che è rimasto fuori un importante ricordo riguardante il Gesù risorto, ambientato proprio sulle rive di quel lago dove era stato chiamato insieme a Pietro, Andrea, e suo fratello Giacomo. Sarebbe un peccato tralasciarlo. Allora aggiunge una pagina al suo scritto già terminato e concluso (20,30-31).
Vi ritroviamo tutti i temi del primo incontro-chiamata con cui si apre il Vangelo: c’è la stessa pesca miracolosa che indusse i primi discepoli a seguire Gesù (Lc 5,4-11), ci sono tutti discepoli incontrati per primi sul lago raccolti intorno a Simon Pietro (Mc 1,16-20), c’è il richiamo all’agnello di Dio (Gv 1,29.36) divenuto ormai pastore che affida il suo gregge a Pietro. Così questi, accanto al ruolo di pescatore di uomini promessogli da Gesù, assume anche quello di pastore. Il racconto si apre con una scena di pesca fallita. È bastato che Pietro lanciasse l’idea di andare a pescare, che subito lo hanno seguito in sette sulla barca. Tutti imbarcati nella stessa avventura. Ma non è andata bene, perché in tutta la notte non ha abboccato nemmeno un pesciolino.
Ormai, senza Gesù, invano faticano i pescatori: dovranno sperimentarlo nella loro missione. Solo al comando di Gesù la rete si riempie inaspettatamente di centocinquantatre grossi pesci, e la rete non si rompe nonostante il peso eccessivo. Era successo all’inizio. Anche allora avevano pescato invano tutta la notte, ma quando Gesù comandò : “Gettate le reti per la pesca”, riempirono addirittura due barche di pesci, tanto che Pietro si spaventò e cadde ai piedi del maestro. Ancora una volta, dopo questa seconda pesca straordinaria, Pietro si getta a nuoto per raggiungere Gesù sulla spiaggia prima degli altri. Saranno i suoi compagni a trascinare a riva la rete stracarica. A terra trovò Gesù affaccendato intorno ad un fuoco di brace, dove stava arrostendo già il pesce per tutti e aveva preparato anche il pane. Aveva allestito la mensa per tutti, aveva intuito che quei suoi discepoli, sempre di buon appetito, erano affamati dopo una notte di veglia e di lavoro a vuoto. Comandò che fosse portato un po’ del pesce appena pescato per rendere la tavola più abbondante, e quindi invitò tutti a sedere a mensa: “Venite a mangiare”‘.
È il banchetto pasquale, la mensa del Signore risorto, riconosciuto presente tra i suoi come ad Emmaus. È l’anticipo della santa cena che verrà celebrata nelle assemblee cristiane di tutti i tempi, conclusione e culmine della fatica umana, segno della convivialità del Signore con i suoi, garanzia e anticipo del banchetto celeste, dove sarà ancora lui a servire gli invitati a tavola (Lc 12,36). Così in certi dipinti catacombali. Finora Simon Pietro ha cercato invano di attirare l’attenzione di Gesù, gettandosi a nuoto per arrivare primo sulla spiaggia e accorrendo a scaricare la rete per rifornire la tavola. Evidentemente vuole farsi perdonare dal maestro il suo rinnegamento. Finito di mangiare, Gesù si dedica a lui in particolare con tre domande simili ripetute. La prima deve essere stata la più sconvolgente: “Mi ami tu più di tutti costoro?”. Come si fa a stabilire paragoni e confrontarsi con gli altri su questo punto? Tanto più che c’è presente il discepolo che Gesù ama.
Pietro risponde come può, senza fare confronti, si appella in tutte e tre le risposte alla conoscenza che Gesù ha del suo cuore. Il maestro sa bene che Pietro gli vuole bene, e questo basta. Sembra che Gesù e Pietro si rimpallino qui i due termini greci dell’amore: agapào e filèo. Il primo indica l’amore divino riversato nel cuore del credente, il secondo indica l’amore di amicizia e di fratellanza. Pietro preferisce puntare sul secondo termine, quello sperimentabile, l’altro lo conosce e lo vede solo Dio. Gesù vuol fargli capire che senza amore non si va da nessuna parte. Nessun incarico si può svolgere se non è affrontato con amore. Senza amore tutto è vuoto (1 Cor 13).
L’apostolo è turbato dall’insistenza con cui Gesù lo interroga. Gli domanda tre volte se lo ama, perché vuole fargli riparare e cancellare i tre rinnegamenti a casa di Caifa? Comunque, capisce che quell’episodio doloroso ormai è perdonato e dimenticato, perché Gesù gli affida i suoi agnelli e le sue pecorelle, le cose più preziose che ha, la sua Chiesa fatta di piccoli e di grandi, di deboli e di forti. Il peccato di Pietro non ha annullato le promesse fattegli da Cristo a Cesarea di Filippo (Mt 16,18-19).
Il perdono di Dio restituisce sicurezza, rivaluta totalmente il peccatore, non lasca strascichi di risentimento o di squalifica. Il Pietro pastore è la metafora del suo ruolo specifico di capo della Chiesa di Cristo, con tutta l’autorità e la responsabilità che ne deriva. Deve rappresentare sulla terra Cristo Buon Pastore (Gv 10,11-16), incaricato di raccogliere l’umanità in un unico gregge, disposto a guidare con fedeltà i credenti, a nutrirli con la sana dottrina, con pieno disinteresse, fino a dare la vita per il suo gregge. In una parola: a seguire Gesù maestro e pastore sulla stessa via di croce. Questa è infatti la prospettiva che Cristo gli fa balenare davanti con una misteriosa profezia e ripetendogli: “Seguimi!”. La tradizione ci riferirà che anche Pietro morì crocifisso a Roma. La sua storia insegna che la fiducia di Dio nell’uomo è incrollabile, anche se la responsabilità che lui affida poggia su deboli spalle. Dio sa e vuole rischiare con tutti noi.