“Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il Pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa […] questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre”.
Così Papa Francesco nell’omelia del 17 aprile a Santa Marta, ha ammonito il popolo di Dio, mettendolo in guardia da una possibile deriva che questo tempo potrebbe portare con sé e che lui ha chiamato “viralizzazione”, cioè il rischio di non aver più la ferma consapevolezza che la familiarità con Gesù è concreta e non virtuale, come lo è stata quella vissuta dai discepoli con il Risorto e commentata dal Papa in Santa Marta (cfr. Gv 21,1-14).
Parole semplici e precise che potrebbero aprire una lunga e densa riflessione che tutto il popolo di Dio è invitato ad affrontare. Perché, continua il Santo Padre, “è vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo: ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci”.
Le misure adottate per contrastare l’attuale pandemia effettivamente hanno portato a non ritrovarsi più come popolo che celebrare insieme la Cena del Signore, come il non abitare e vivere i luoghi tipici della comunità cristiana, pensiamo alle chiese o agli oratori, come agli altri luoghi pastorali.
Tutto ciò è stato, dati alla mano, necessario per aiutare il rallentamento dell’epidemia nella speranza che la corsa, in un futuro non troppo remoto, possa anche trovare la sua fine. Vietare gli assembramenti che non potessero assicurare il così detto “distanziamento sociale”, ha portato a vivere un altro ambiente, quello virtuale, nel quale anche la Chiesa, che già lo abitava timidamente da tempo, si è catapultata per non arrendersi di fronte alla realtà complessa che si sta attraversando.
Nel tunnel della straordinarietà
D’altra parte tra distanziamento e fede on-line, da non demonizzare, si potrebbe correre il rischio di rimanere intrappolati nel “tunnel” della straordinarietà, dettata dagli eventi, assunta come via ordinaria di essere Chiesa.
Cosa possiamo fare di fronte a questa possibile deriva? Anzitutto ricordare cosa significa essere comunità cristiana.
Per far ciò possiamo lasciare che la Scrittura illumini la riflessione, in particolare l’immagine delineata in Atti degli Apostoli: i battezzati
“erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio” (v. 42-47).
Significativo il fatto che in tutto il racconto viene sempre utilizzato il plurale ma soprattutto tutto ciò che i primi battezzati facevano lo facevano insieme.
La fede vissuta al plurale
Lo spezzare il pane (fede celebrata), come l’essere assidui nell’insegnamento degli apostoli (la fede annunciata), infine l’avere in comune ogni cosa (la fede vissuta): non è questione di singolare ma di plurale.
La “familiarità” richiamata da papa Francesco dunque, non può essere solo ideale o spirituale né tanto meno solo digitale, perché “può diventare – diciamo – gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio”.
La strada tracciata dal Pontefice, per vivere questa familiarità con Gesù, sembra reggersi dunque in una relazione sì intima ma al contempo necessariamente comunitaria. Dove ciò che oggi è vietato o visto con sospetto, cioè il contatto reale, invece è la chiave.
Non resta dunque che attendere di ritornare ad essere Chiesa dell’incontro, della prossimità, della familiarità, non mediata dallo schermo. Attesa che non significa immobilità o adagiamento al contesto attuale. All’opposto significa progettare, tra una diretta e l’altra, il come tornare ad essere ciò che ora siamo solo in parte.
Francesco Verzini