Ancora una parabola sulla preghiera, basata sul confronto tra due protagonisti. Luca, evangelista della preghiera, ci fornisce qui un nuovo brano della catechesi raccolta dalla predicazione di Gesù. Dopo averci detto che la preghiera cristiana è efficace, se perseverante e fiduciosa, ora ci insegna che deve essere anche umile e sincera. Il Gesù storico ha di mira, nel suo racconto, coloro che ‘presumono di essere giusti e disprezzano gli altri’. Si rivolge dunque a coloro che possiedono una pietà pericolosa e sbagliata, come quella di alcuni farisei del suo tempo. Naturalmente non tutti i farisei erano così, molti di loro avevano una devozione autentica, profonda e sincera.
Rabbi Hillel, un maestro fariseo quasi contemporaneo di Gesù, insegnava: “Quando preghi, non ti separare dall’assemblea, fino al giorno della tua morte non confidare in te stesso e non giudicare il tuo vicino finché non ti sarai messo nei suoi panni”. Proprio ciò che insegna Gesù nella nostra parabola. Per trasmettere il suo insegnamento in modo efficace e incisivo, Gesù mette in campo due protagonisti che sono agli antipodi nella stima popolare del suo tempo: un fariseo e un pubblicano.I due sono fotografati mentre pregano, messi a confronto da questo particolare punto di vista per indicare quale sia la preghiera gradita a Dio. Luca ama raccogliere parabole di Gesù che stabiliscono un parallelismo antitetico tra due personaggi per far risaltare più chiaramente l’atteggiamento positivo e quello negativo. L’ha fatto con la parabola dei due figli diversi (15,11-32), con quella di Lazzaro e del ricco egoista (16,19-31) e con quella del giudice e della vedova, letta domenica scorsa (18,1-8).
Quelle del fariseo e del pubblicano sono due figure emblematiche, personaggi tipo che assurgono al rango di simboli antitetici nell’immaginario ebraico del tempo. Ambedue salgono dalla città bassa al sacro tempio di Gerusalemme a pregare, esprimendo così una loro personale devozione. Pregano in silenzio tra sé e sé, dialogando interiormente con Dio e con se stessi. Tutti possono e devono pregare così, sia pure a modo loro. La preghiera più autentica nasce dall’intimità del cuore e si cala nella vita di ciascuno con i problemi, le convinzioni e i desideri che ognuno porta dentro. Questa è la realtà viva e concreta che Gesù fotografa e confronta a nostro insegnamento. Il primo protagonista è un fariseo, cioè un uomo appartenente ad un movimento spirituale laico composto di artigiani, contadini, commercianti, guidato dai maestri delle legge (i rabbini), che insegnavano ad osservare scrupolosamente i 313 precetti ricavati dalla tradizione orale e scritta fatta risalire a Mosè.
Di solito erano persone serie, impegnate, sincere, esemplari e stimate, ma che correvano il rischio, tutt’altro che ipotetico, del formalismo e dell’integralismo religioso. Questo li rendeva a volte superbi, cavillosi, capaci di eludere i loro doveri religiosi più importanti. Questi tali Gesù li chiamava perciò ipocriti, sepolcri imbiancati. La preghiera del fariseo sommariamente descritta da Gesù è un ringraziamento a Dio per l’aiuto ricevuto sulla via della santità. Egli riconosce l’opera della grazia, ma poi se ne compiace orgogliosamente come un privilegio personale e stabilisce un odioso confronto tra sé e gli altri, specie col pubblicano che prega con lui. La sua preghiera finisce per essere un elenco di meriti da esibire sfacciatamente a Dio, e un giudizio ingiusto e indebito nei confronti degli altri. Si capisce subito che il pubblicano ha tutta le simpatia e la considerazione del narratore. Si è fermato a distanza dall’altare, quasi a misurare umilmente la sua lontananza da Dio e dal ‘santone’ fariseo che lo disprezza. Non osa alzare gli occhi al cielo perché si vergogna di se stesso, e si batte il petto in segno di pentimento come per scuotere via da sé i sui peccati. Apparteneva alla categoria di impiegati statali e parastatali incaricati di raccogliere le tasse, i pedaggi, i dazi, gli affitti dei beni demaniali.
Erano personaggi invisi e denigrati perché collaboratori dei Romani occupanti, e perché esosi, desiderosi di arricchirsi con ogni mezzo alla spalle della gente. I farisei li consideravano avari, egoisti, ladri irrecuperabili. Erano pubblici peccatori e se ne rendevano conto. La preghiera del pubblicano è semplice e umile, come quella della gente che non sa comporre lunghi discorsi. Riesce solo a dire: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, una preghiera breve ma umile, intensa e sincera. Non prova nemmeno ad elencare i propri peccati, impossibili per lui da catalogare, e non formula nessun proposito specifico, perché gli hanno fatto credere che è incapace di mantenerli. La sua scarna preghiera serve a stabilire un bel dialogo di amore con Dio, che legge nel cuore di ciascuno le parole che avremmo voluto dire e che non abbiamo saputo dire.
La conclusione di Gesù è perentoria e chiara come la sentenza del giudice divino: “‘Io vi dico!”. Le parole che seguono dovettero risuonare sconcertanti e scandalose, perché operavano un capovolgimento delle aspettative e delle convinzioni correnti. La preghiera del fariseo è respinta da Dio che ha ribrezzo dei superbi, invece gli è gradita quella del pubblicano, perché Egli accoglie con amore gli umili. Il racconto non contiene nessuna denigrazione del fariseo, ma indica che Dio non può accettare chi si vanta sfacciatamente dei suoi meriti e vanta pretese con Lui. L’umile richiesta di perdono e il riconoscimento della propria povertà spirituale meritano la giustificazione, cioè la salvezza di Dio. Nessuno è veramente grande davanti a Dio, se non sa farsi piccolo.