Siamo riportati nel cenacolo dove Gesù risorto ha ripreso le conversazioni interrotte dagli avvenimenti della passione. Di nuovo insieme a parlare delle cose già dette, per approfondirne il significato e la portata. Alla luce della Pasqua, quei discorsi assumono un senso nuovo, più concreto e più vero. Una scuola della Parola che ricorda e spiega gli insegnamenti già uditi, ma non ancora assimilati. Il Vangelo di oggi tradisce questa nuova situazione post-pasquale in cui ci troviamo. Gesù dice infatti: “Questo cose vi ho detto quando ero ancora tra voi”, prima della mia passione e morte. Ora le cose sono cambiate, Gesù non è più fra i suoi alla stessa maniera, è nella condizione del Risorto, a cavallo fra cielo e terra, tra la condizione umana che porta incisa nelle piaghe del suo corpo, e la condizione divina che lo rende immortale, abitatore del cielo, già nella casa del Padre.
Il discorso di Gesù tocca temi di grande importanza spirituale: l’inabitazione divina nel credente, la venuta dello Spirito santo, il dono straordinario della pace. Tutto è legato all’amore dei discepoli per Gesù. Di questo amore si parla poco nei Vangeli, che preferiscono parlare più di fede in Gesù, ma i concetti non sono poi molto lontani. Credere in Gesù significa fidarsi di lui e affidarsi a lui, e questa è una variante del concetto di amore. Comunque qui si parla esplicitamente di amore per ben tre volte. Ogni volta viene detto che l’amore comporta l’osservanza dei comandamenti di Gesù riassunti nel comandamento nuovo (13,34-35). La prima volta questo amore ha come conseguenza il dono dello Spirito Consolatore (14,15-17); la seconda volta, comporta la venuta di Gesù nel cuore di chi ama e la vita divina in lui (14,18-21); la terza volta l’amore assicura la presenza delle tre Persone divine nell’amante (14,23-26).
Le tre presenze finiscono per essere la stessa unica presenza della Trinità nell’anima dei credenti. Colui che crede in Gesù e lo ama, diventa tempio vivo di Dio. In lui Dio prende dimora stabile, in attesa di ricambiare l’ospitalità nella grande casa del cielo. Il termine “dimora”‘ (in greco moné) ricorre anche all’inizio del discorso, quando Gesù dice: “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore. Io vado a prepararvi un posto”‘ (14,2). La dimora di Dio in chi lo ama si trasformerà, alla fine della vita terrena, in una dimora stabile nella casa celeste del Padre. Il che equivale a dire: Dio abita in noi e noi abitiamo in Dio. Colui che i cieli dei cieli non possono contenere, si compiace di abitare nel cuore di chi ama; limita la sua infinita grandezza e si fa piccolo in noi come si fece bambino nel grembo di Maria.
In realtà è lui che ci contiene e ci avvolge con il suo abbraccio di tenerezza infinita. Qui inizia il nuovo tipo di culto ‘in Spirito e Verità’, cioè il culto interiore di adorazione, di amore, di servizio guidato dallo Spirito, maestro interiore, e da Cristo “‘Via, Verità e Vita” (14,6). Non siamo mai soli. Gesù aveva assicurato: “Non vi lascio orfani, ritornerò da voi” (14,8). Tornato tra noi con la sua risurrezione dai morti, resta tra noi mediante lo Spirito che egli ci ha donato e che forma con lui e con il Padre una cosa sola. La venuta dello Spirito santo nella Chiesa e nei credenti è una forma diversa del ritorno di Gesù risorto fra i suoi. La presenza delle tre Persone divine è inscindibile, non sono mai separabili. Dove c’è lo Spirito, lì c’è Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Gesù può dire in forma equivalente: “Noi verremo a lui e prederemo dimora presso di lui” (14,23), o dire “Vi darò un altro Consolatore, che rimanga con voi per sempre, egli dimora presso di voi e sarà in voi”. (14,16-17).
Si parla dello Spirito santo in cinque brani disseminati nei discorsi di addio tenuti nel cenacolo prima e dopo la Pasqua. Per lo più viene indicato con il nome di Paraclito, parakletòs, che nel greco ha una molteplicità di significati: testimone, portavoce, consolatore, maestro, guida, protettore, avvocato difensore. Tutti questi significati sono radicati nel concetto etimologico fondamentale del verbo greco para-kalè, che comporta un “chiamare vicino”, un essere accanto a qualcuno per assisterlo, difenderlo e guidarlo. Con il termine polivalente Paràclito, Giovanni indica dunque lo Spirito come colui che prende il posto di Gesù nella Chiesa (“un altro Paràclito”). Inviato a nome di Gesù, dietro sua preghiera al Padre, in unità con lui, egli è presenza divina nel credente divenuto suo tempio (14,16-17), è maestro interiore incaricato di ricordare e spiegare le verità insegnate da Cristo (14,26), è testimone che sostiene e corrobora la testimonianza cristiana (15,26), è avvocato difensore dei credenti trascinati davanti ai tribunali del mondo (16,7-11), in una parola è la guida della Chiesa verso tutta intera la verità (16,13-15), alla radice dunque dello sviluppo della teologia cristiana.
Strettamente legato alla venuta dello Spirito è il dono della pace, che Gesù lascia ai suoi come regalo pasquale (Gv 20,19.21). Per gli apostoli, che erano ebrei, il concetto di pace era moneta corrente che si scambiavano in ogni saluto. Era il bene messianico per eccellenza, atteso e desiderato come la somma di tutti i benefici e le benedizioni che Dio può dare alle sue creature. Soprattutto, era la condizione spirituale della salvezza portata dal Messia, principe della pace. Frutto della sua vittoria sul male, certezza dell’amore di Dio, anticipo della gloria raggiunta dal Risorto. È lo stato di sicurezza che pone il credente al riparo da ogni tipo di male, che lo fa sentire figlio amato del Padre, già erede delle gioia eterna che Dio gli assegnerà alla fine della vita. Insomma è la condizione di tranquillità, di serenità e di gioia interiore che solo la tenerezza misericordiosa del Padre può dare ai suoi figli pellegrini nel mondo. Essa nasce e germoglia nelle profondità del nostro cuore sotto l’azione feconda dello Spirito che Gesù ha donato a tutti noi come frutto della sua Pasqua.