La dichiarazione iniziale di questo brano fa da ponte tra la visione simbolica/personale di Gesù come pane disceso dal cielo con l’incarnazione, e la visone sacramentale dell’eucaristia donata a noi con la morte di croce e la risurrezione. Ci viene detto che l’eucaristia è la carne di Gesù che si è fatto uomo per noi, ma anche la carne immolata sulla croce e glorificata nella risurrezione. L’eucaristia è il tesoro inestimabile che il Padre ci ha affidato, è il paradiso a portata di mano di ogni credente. Siamo radunati come famiglia di Dio per riscoprire questo “mistero della fede”, una realtà divina nascosta ai nostri sensi, che solo Cristo poteva rivelarci, perché “nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo” (Gv 3,13). Nel brano appena letto, Giovanni ha voluto trascriverci le ultime battute di un’omelia eucaristica domenicale che ci riporta nel cenacolo per spiegarci il significato delle parole pronunciate da Gesù nella sera di Pasqua. Essa invita le nostre assemblee domenicali, spesso distratte e abitudinarie, a riscoprire il significato paradossale e scandaloso di ciò che celebrano.
La liturgia riproduce la presenza di Gesù tra noi con un po’ di pane e un po’ di vino, consacrati dalle parole che Cristo usò la vigilia della sua passione. Mangiamo realmente la sua carne e beviamo il suo sangue, ma magari senza essere del tutto consapevoli di ciò che facciamo. Giovanni vuole aiutarci a capire meglio, ricostruendo un dialogo tra Gesù e i giudei radunati nella sinagoga di Cafarnao. La dichiarazione iniziale sembra nascondere la formula di consacrazione eucaristica giovannea in uso nelle Chiese dell’Asia: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Essa rispecchia le formule usate nei vangeli sinottici, specie quella riportata da Luca: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19).
Non possiamo dimenticare che Luca, come Giovanni, scrive il suo vangelo ad Efeso e conosce la formula giovannea. Riesce così a combinarla con quella usata da Paolo nelle sue liturgie asiatiche. Solo che Giovanni preferisce sostituire il termine ‘corpo’ con quello di ‘carne’. Ambedue sono traduzione del termine aramaico bisra’ usato da Gesù nell’ultima cena. Giovanni preferisce questo termine perché più realistico e concreto. Esso traduce meglio lo svuotamento operato dal Figlio di Dio quando prese la nostra natura mortale, vulnerabile e limitata. Già nel prologo del vangelo indica che l’Unigenito Dio, presente nel grembo del Padre fin dall’eternità e creatore del mondo, superò la distanza infinita che lo separava da noi, facendosi “carne”. L’altro salto esistenziale ancora più in basso lo fece quando divenne “pane” da mangiare: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo”.
Un pane-carne da mangiare masticando, come indica con realismo il verbo troghein, usato nel piccolo brano di oggi ben quattro volte in alternativa con quello omonimo più frequente e meno volgare, esthiein. La formula adottata da Giovanni poi scavalca le mura anguste del cenacolo e allarga l’orizzonte salvifico dell’eucaristia al mondo intero, dicendo che quel pane non è dato solo “per voi”, ma è offerto per la salvezza del mondo. Quella carne immolata e glorificata nella Pasqua è offerta agli uomini come fonte di salvezza per tutti, perché è la carne “dell’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Mangiarla significa collocarla al centro e nel cuore del mondo come antidoto contro il male e la morte.Proprio questo invito di Gesù a mangiare la sua carne viva scandalizza gli ascoltatori. Gli ebrei avevano e hanno grande ripugnanza religiosa a mangiare la carne contenente sangue; bere il sangue è assolutamente proibito dalla loro legge (Lev 3,17; 17,10s).
A questa ripugnanza si aggiunga l’orrore naturale di mangiare carne umana, e ci rendiamo conto della loro protesta rumorosa. Essi hanno interpretato le parole di Gesù in modo materialistico, come avevano fatto Nicodemo (3,4) e la Samaritana (4,11), e non in modo spirituale e sacramentale. La presenza e l’azione di Gesù ci raggiungono nei sacramenti attraverso segni comuni quotidiani come l’acqua, il pane e il vino, così non destano ripugnanza e sono alla portata di tutti. Ma qui Gesù non si attarda a spiegare queste cose. Ribadisce il suo invito con un’assicurazione solenne,, prima in maniera negativa poi in maniera positiva: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò”.
Ora la carne e il sangue si presentano separati come segno di morte sacrificale, e al mangiare si aggiunge il bere, come nella cena pasquale narrata dai Sinottici. L’evangelista specifica ulteriormente i due elementi del banchetto eucaristico come veniva celebrato: “La mia carne è vero cibo, e il mio sangue è vera bevanda”. Siamo portati nel cuore delle fede eucaristica cristiana, dove le apparenze nascondono la realtà “vera”, quella “autentica” appartenente al mondo di Dio, e diventano “mistero della fede”. Giovanni aggiunge ora la descrizione dei due effetti che l’eucaristia produce: il dono della vita eterna e l’unità di vita con Gesù. Il primo garantisce, a chi partecipa con fede al banchetto, la vita eterna e la risurrezione nell’ultimo giorno. Non si tratta solo di avere l’immortalità, ma di possedere la vita divina, quella che fa figli di Dio.
Questa vita è data al cristiano nel battesimo mediante l’acqua e lo Spirito (Gv 3,5), ma viene mantenuta e garantita dal nutrimento eucaristico. Non si vive senza mangiare. Chi non mangia muore. L’eucaristia assicura il dono della vita divina, perché ci tiene uniti a Cristo in modo da formare con lui una cosa sola, come dice Paolo: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,17). Questo vuole dire Gesù quando garantisce: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui”. Lo scambio e la comunicazione della vita passa attraverso l’unione fisica misteriosa che si verifica nell’eucaristia. La legge dell’assimilazione è applicata alla rovescia: non è il cibo ad essere cambiato nella nostra carne e nel nostro sangue, ma è la carne e il sangue di Gesù ad assimilare noi, cambiandoci in Lui. Noi siamo rami attaccati alla vite; senza questa unione, non viviamo (Gv 15,4s).