La fretta per il Regno. Quanto ascolteremo oggi dal Vangelo secondo Marco è parte di quella che viene comunemente definita la “giornata di Cafàrnao”, ovvero una raccolta di episodi che vanno da Mc 1,21 fino a 1,34 e che appunto l’evangelista racchiude in una cornice di 24 ore. Si inizia con la preghiera del mattino in sinagoga, descritta dal v. 21, preghiera in cui ancora oggi gli ebrei ascoltano la Torah e anche un sermone tenuto dal rabbino, e poi la giornata termina al tramonto del sole, quando ormai finito lo shabbat è permesso portare i malati davanti a Gesù (ma della conclusione di questa giornata udremo solo nel Vangelo della domenica prossima).
L’attività di Gesù sembra frenetica: non ha tempo se non per insegnare e per guarire. Quell’avverbio, “subito” (euthys, importantissimo per Marco), che la versione Cei stranamente non traduce, ma che è presente nei vv. 21.23.28, dice la fretta di Gesù che sa che “il tempo è compiuto” (Mc 1,15), e allora non c’è tempo da perdere per mostrare come il Regno è arrivato tra gli uomini. Gesù insegna con autorità. La prima carità che esercita, il primo miracolo che compie Gesù nel Vangelo di Marco non è una guarigione o un esorcismo, ma l’insegnamento. Anzi, Marco presenta Gesù come un maestro, in proporzione, più degli altri vangeli: per 5 volte usa a suo riguardo la parola didaché (“insegnamento”, termine che la Cei traduce in 1,27 con “dottrina”, pur essendo lo stesso di 1,22), e per 10 volte lo chiama “maestro”, titolo riferito solo a lui. Gli “altri”, a cui viene paragonato Gesù, sono gli scribi. Ma questi non hanno la stessa autorità di Gesù. Marco sottolinea due volte (vv. 22 e 27) che egli insegna in modo molto diverso rispetto agli altri scribi, ovvero “con autorità”.
La differenza tra lui e gli altri rabbini deve stare a due livelli. Il primo è quello dell’autorevolezza con cui Gesù dice le cose. Leggendo i testi della tradizione rabbinica, che sono stati raccolti a partire dalla caduta del secondo Tempio, nella seconda metà del I secolo d.C., si rimane colpiti sia dall’attaccamento alle “tradizioni degli antichi” (di cui parla anche Marco in 7,1-13), tramandate con una lunga catena di detti e di sentenze, ma soprattutto dal modo in cui queste sono elencate una dopo l’altra, come una raccolta di opinioni diverse ma dello stesso valore. La parola di Gesù invece ha un peso più grande: egli si rifà direttamente alla Legge e a Dio. Ma c’è di più, e siamo al secondo punto. Le parole di Gesù non sono semplicemente parole, ma compiono ciò che dicono. Egli è il “santo di Dio” (Mc 1,24), e perciò la sua autorità esprime il potere di Dio stesso: per questo insegna, esorcizza e guarisce, attraverso una parola che libera e salva.
L’insegnamento nella Chiesa è ancora oggi un servizio fondamentale, e deriva da Gesù stesso e dal suo Spirito, il quale svolgerà la stessa funzione di Gesù-maestro: “insegnerà ogni cosa” (Gv 14,26). È uno dei ministeri di cui parla Paolo (Rm 12,7), ed è forse ancora la carità di cui più abbiamo bisogno in tempi in cui è difficile trasmettere la fede e – a causa del relativismo – l’insegnamento della Chiesa perde spesso la sua forza. Gesù come Adamo. Quando l’uomo posseduto da uno spirito immondo (cioè da un demonio) sente la presenza di Dio in Gesù, ha paura. Dove c’è Dio con il suo regno, lì non c’è spazio per il male e le sue potenze: se ne devono andare. Gesù non lascia parlare lo spirito immondo: “Taci”, gli ordina. Gesù non vuole che Satana parli, e non solo perché il diavolo è “menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44).
Già era accaduto una volta che il serpente aveva parlato, ed ebbe inizio la triste storia del peccato dell’uomo: il serpente antico per tentare al male Adamo doveva infatti inculcare il veleno del dubbio in Eva, con una domanda:”È vero che?” (Gen 3,1). Se allora fosse stato fatto tacere, Adamo avrebbe vinto la tentazione. Nel Vangelo secondo Marco la cristologia è centrata sull’idea che Gesù è capace di ricuperare la sorte del Primo uomo. Qui, quando fa tacere il demonio, e anche nella scena del deserto, ovvero nel racconto della sua tentazione. Gesù viene “cacciato” nel deserto (Mc 1,12) così come Adamo era stato “cacciato” dal paradiso (“Dio scacciò l’uomo, e dinanzi al giardino di Eden pose i cherubini e la fiamma della spada folgorante per custodire l’accesso all’albero della vita”; Gen 3,24), condividendone così la sorte, ma esce vittorioso dalla prova: al termine di essa, registra Marco, Gesù “stava con le fiere” – cioè di nuovo in pace come Adamo nella creazione – “e gli angeli lo servivano”, cioè con lo stesso onore che, secondo una tradizione rabbinica, Dio aveva dato alla sua più bella creatura, quello di essere nutrito dagli spiriti buoni.
Gesù, ancora, appare nel Vangelo di Marco non come un bambino, come invece in Matteo e in Luca (nei vangeli dell’infanzia di Cristo): arriva sulla scena già adulto, uomo fatto, come Adamo è creato adulto. La giornata di Cafàrnao si svolge in un sabato, quel giorno in cui Dio si è riposato dopo aver creato Adamo. In questo giorno Gesù può riportare alla sua originale bellezza la creazione, con la stessa parola creatrice che ha creato l’universo, e che esercita la sua autorità forte; ma anche esercitando su quel giorno, il sabato, una speciale signoria. Il “Figlio dell’uomo”, come ascolteremo in un’altra domenica, è “Signore del sabato” (Mc 2,28).