Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio e lo Spirito Santo”, ovvero la Santissima Trinità che domenica 11 giugno celebriamo solennemente. Le Letture ci introducono a questa solennità mettendo subito in chiara luce il mistero che riguarda la Santissima Trinità: l’amore. “L’amore è un mistero” e l’amore è il comune denominatore che i brani biblici propongono per presentare “l’inscrutabile mistero che è Dio” (Giovanni Paolo II, 27.11.1985).
La Sacra Scrittura ci propone a proposito tre passaggi: Dio è misericordioso (Es 34,6) e per amore ha inviato Suo Figlio (Gv 3,17), ne consegue che i credenti vivano in un atteggiamento di amore e di condivisione (2 Cor 3,11). In ognuno dei tre brani c’è un personaggio che fa da tramite nel trasmettere il messaggio trinitario dell’amore: Mosè, Nicodemo e Paolo. L’Esodo ci riferisce di Mosè nel momento in cui sta “tagliando” le due tavole di pietra perché Dio vi riscriva sopra le “parole” che aveva già scritto nella precedente tavola ma che Mosè aveva spezzato. L’episodio del vitello d’oro aveva infatti causato l’ira di Mosè e la relativa rottura delle prime due tavole, ma in seguito all’intercessione di Mosè a favore del popolo, il Signore risponde concedendo un’altra opportunità.
E nel luogo (Sinai) e nel momento precisi (di buon mattino), in una nuova teofania (nube), il Signore pronuncia quella che è la Sua identità: “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà”. È una delle più belle espressioni di tutta la Scrittura che ricorre circa sette volte e a cui in questo contesto fa eco la richiesta di Mosè di un segno tangibile della presenza divina tra il popolo e il Signore accondiscende stabilendo di nuovo con il popolo l’alleanza. L’Esodo ci propone quindi la “definizione” e l’“indole” del Signore, il Vangelo ci addita l’opera eccelsa del Signore.
È Nicodemo in questo caso ad introdurre la scena. E come Mosè aveva invocato il Signore per il popolo, così Nicodemo porta con sé tutti i dubbi degli esseri umani perché interpella Gesù esprimendosi alla prima persona plurale, “noi”. Al fariseo interessato al rabbi perché compie segni che “nessuno può fare se Dio non è con lui”, Gesù rivolge un lungo discorso di cui domenica 11 giugno si legge solo una piccola parte, ma che è considerata la chiave del pensiero teologico giovanneo che è sintetizzata nell’espressione: “Dio è amore”. Infatti, qui compare per la prima volta nella letteratura giovannea il sostantivo amore (agapè) per significare il sentimento che prova Dio nei riguardi dell’umanità e questo amore lo dimostra con il dono della vita di Suo Figlio. Ciò che si traduce con umanità è reso con “mondo” (kosmos), ma non il “mondo” inteso come al primo capitolo del Vangelo, cioè come forza ostile nei riguardi della luce, ma come insieme di tutti gli esseri umani bisognosi dell’intervento salvifico che eviti “un giudizio di condanna”. Tuttavia quest’azione salvifica è destinata a quanti la desiderano, a quanti cioè “credono in lui”. Anche se pure i Vangeli sinottici e Paolo utilizzano il verbo ‘amare’ (agapao), la casistica ci fa prendere consapevolezza che è il verbo più “amato” da Giovanni.
Nel suo Vangelo, oltre che nel brano in questione, lo usa altre 35 volte e nelle tre lettere 31 volte (con più frequenza nella prima). E stando al brano di nostro interesse, all’amore di Dio, corrisponde l’aver fede dell’uomo. È significativo notare che al sostantivo “fede” (piste) fa seguito la preposizione “verso” (eis) come a voler sottolineare il carattere dinamico del credere: aver fede è una “condizione” da rinnovare ogni giorno. Come nell’Esodo è scritto che “Dio perdona” così qui viene subito escluso il fatto che Dio voglia condannare il mondo. E la novità in questa pericope è che la salvezza non è presentata come una realtà escatologica, ma attuale. Ma la partecipazione alla salvezza o la scelta della condanna sta nelle mani degli uomini. “Chi non crede è già stato condannato”. Nicodemo, a cui Gesù sta parlando, è il modello di ogni credente. Nella “notte”, si è mosso ed è andato a cercare la “luce”. Così, chiunque si mette in gioco, esce dal credere in se stesso per diventare credente in Cristo ed è salvo.
Nella seconda Lettera ai Corinzi Paolo dà dei suggerimenti riferibili a colui che cerca di fare sul serio nei riguardi della vita e della fede: “Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù abita in voi?”. E la prova consiste nell’“avere gli stessi sentimenti”, “vivere in pace”. Viene anche menzionato un insolito elemento: il “bacio santo”. Si tratta del bacio “liturgico” attestante la fraternità tra i membri, tradizione presente anche in 5 altri ambiti del Nuovo Testamento e che rivela il profondo affetto che albergava nelle prime comunità cristiane, il tutto sigillato dalla benedizione ternaria che è una delle definizioni della Santissima Trinità: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo”. Dove c’è Dio, c’è comunione, dove ci sono credenti che si vogliono bene c’è Dio!