Brucia ancora l’interpretazione riduttiva dell’azione di noi preti che ci siamo coinvolti nella vita dei poveri. “Fate opera di supplenza”. Coome!! Opera di supplenza la fa a Milano il San Raffaele di don Verzè. Opera di supplenza la fanno a S. Giovanni Rotondo i Frati minori che gestiscono bene quello splendido ospedale regionale, soprannominato “casa Sollievo della sofferenza”, non certo quegli altri frati che (si dice) due passi più in là hanno una casa d’accoglienza, dove non vengono ricoverati dei malati perché malati, ma vengono accolti gli ultimi del mondo perché ultimi. Il fatto è che il tema della Chiesa dei Poveri è morto e sepolto. Ne ebbi la precisa percezione una quindicina di anni fa. Ero ricoverato nell’ospedale Regina Apostolorum di Albano: dieci giorni di relax, con la scusa delle “analisi approfondite”. A tavola dovetti subire più volte l’osceno sproloquio di un grifagno dignitario ecclesiastico. Protonotario Apostolico? O Cameriere Segreto del Papa? Oppure semplice Scopatore Pontificio? In ogni caso il suo era un titolo usurpato. “Quel mentecatto di Papa Giovanni!… Con quella sua stupida fissa della Chiesa dei poveri!…”, e via sbavando. Lo picchio? Non era ancora la stagione dei primari che si tonfano in sala operatoria. Ma mi si strinse il cuore. Che fine farà la mia Chiesa senza i Poveri? Che succederà se imbecilli di questa caratura si moltiplicheranno e continueranno a sbavare? Con noi in ospedale c’era anche un fraticello trappista, minuto, molto anziano, scuro, rattrappito, con le mani che l’artrite aveva ridotto a giocattoli. Quando seppe che io ero uno di Capodarco, gli occhi gli si accesero, mi chiamò da parte, e su Capodarco e dintorni mi fece una sfilza di domande, una più intelligente dell’altra, denunciando una fortissima informazione sui nostri problemi e un fortissimo interesse per quello che, come preti, tentavamo di fare, più con che per i poveri. “Ma… chi è lei?”. “Non importa”. Insistetti, minacciai di interrompere il nostro colloquio. Allora si scoprì. Era fratel Filiberto Guala. L’ingegner Filiberto Guala. L’onnipotente amministratore delegato che nei primi anni ’50 aveva lanciato in orbita la Rai. Poi, nel 1956, quando io a Roma portavo a termine il I anno di Filosofia, aveva lasciato tutto. Era diventato trappista. Nel silenzio assoluto. Avrei voluto abbracciarlo. Me lo sconsigliò la paura di compromettere il precario equilibrio di quelle quattro ossa. È morto lì, nel Regina Apsotolorum, nel 2000.
L’ingegnere trappista
ABAT JOUR
AUTORE:
A cura di Angelo M. Fanucci