L’identità e i suoi nemici

Pare davvero che quello della propria identità sia il più drammatico di tutti i problemi dell’uomo di oggi. L’uomo di inizio terzo millennio si piazza davanti allo specchio e prende a tormentarsi la barbicchia: ‘E chi è ‘quello’?!’. ‘Quello sono io’. Già. Ma ‘Chi sono io?!’. La domanda ‘Chi sono io?’ un giorno si articolava immediatamente in altre due domande: prima, ‘Qual è la verità della mia condizione?’; seconda, ‘Qual è il bene che la vita mi chiede di realizzare?’. Coloro che ci provano a riproporre questi interrogativi come strada maestra per affrontare i problemi di fondo che la vita moderna pone sono pochi e perdenti, perché nel contesto della civiltà dell’immagine, e dell’informazione alluvionale, e dei talk show a rotta di collo, la loro voce non si avverte nemmeno. Cosa volete che conti la più curata delle omelie domenicali per l’uomo che capita ogni tanto in chiesa, per abitudine, lui che ha fatto le scuole medie superiori senza venire nemmeno sfiorato da un attacco, magari solo episodico, di coscienza critica nei confronti dei suoi miti (calciatori, attori, gente ‘di successo’)? Cosa volete che conti di fronte all’anchor man televisivo di turno, uno di quei venditori di fumo che dal piccolo schermo aiuta milioni di persone a banalizzare domande di grande portata con ‘risposte’ di nessuna serietà; volgarizzando in chiave consumistica anche i più acuti approfondimenti delle scienze umane? Senza mai andare oltre l’affermazione estemporanea, mai sufficientemente pensata, sempre protesa a dire la cosa più ovvia. Col venir meno dei riferimenti essenziali di ogni scavo di coscienza, tutto sembra uguale al contrario di tutto, il non/senso è la norma, ogni imbonitore diventa un maestro. Mentre quello che unisce davvero gli uomini seri non è tanto l’identità delle risposte, quanto la serietà della ricerca. Per questo – fra parentesi – esistono da una parte atei seri, dai quali c’è molto da imparare, e dall’altra cristiani poco seri, che non merita la pena d’incontrare. Preziosa in questo senso l’analisi che diverse decine di anni fa Umberto Eco, in un capitolo del suo Diario minimo, intitolato La ‘Fenomenologia’ di Mike Buongiorno, fece del successo travolgente di questo campionissimo della longevità televisiva: è un every man, diceva il più divulgativo dei nostri maÈtres à penser, Mike ha intuito per tempo che la regola d’oro per il successo nel mestiere di presentatore è dire sempre e soltanto quello che il tuo pubblico si aspetta che tu dica. Ma lasciarsi sempre e comunque condizionare dai milioni di bipedi che ti ascoltano, o che ti vedono, ingenera la paura della propria coscienza: il confronto necessario a mettere a punto il più possibile la propria identità diventa insostenibile, si teme il trauma che potrebbe derivarne; e allora magari ci si stordisce in una vita senza soste’ ma prima o poi la domanda pesantissima si riaffaccia: Chi sono io?