Il giusto risplende come luce” recita il ritornello del Salmo responsoriale di questa V domenica del Tempo ordinario, che dà il tono a tutta la Parola di Dio invitandoci al valore della libertà e al senso di responsabilità. Il libro del profeta Isaia infatti usa un tono decisamente provocatorio, dichiarando l’inutilità di una religiosità di tipo solo esteriore se non accompagnata dall’apertura del cuore agli altri. Nello specifico parla del digiuno. Il popolo ebraico era obbligato a osservare il digiuno una volta all’anno in occasione del giorno dell’Espiazione (Lv 23,27), ma, trovandosi nella necessità di dover placare il Signore, vi aggiunse una serie di altri digiuni (Zc 7,5) pensando così di riuscire nell’intento. In tono piuttosto severo: “Grida a squarciagola, non risparmiarti” (Is 58,1), il Signore tramite il profeta avverte che il vero digiuno consiste nel compiere le opere: “Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà la tua luce”.
C’è corrispondenza tra il digiuno, inteso come compimento delle opere, e la luce, anzi la luce è la naturale conseguenza delle opere. E il tema della luce è ripreso da Gesù nel brano evangelico che la liturgia propone. È un brano di soli quattro versetti del Vangelo di Matteo, inseriti strategicamente dopo le Beatitudini e prima del discorso in merito all’interpretazione della Legge. Centrali sono le due similitudini: “Voi siete il sale della terra” e “voi siete la luce del mondo”. Esse sono rispettivamente ampliate, la prima, con l’idea del sale scipito; la seconda con altre due sotto-similitudini che ribadiscono l’importanza della luce o, meglio, della visibilità: la città sul monte, la lampada sul candelabro. Mentre è più facile cogliere il significato dell’abbinamento luce / mondo (che ricorre con una certa frequenza nella Bibbia), sembrerebbe non essere altrettanto per l’abbinamento sale / terra. Ma lo comprendiamo alla luce della tradizione giudaica, che afferma che “la Torah somiglia al sale” (Sopherim 15,8). Per deduzione è quindi ‘insipido’ chi non prende ‘sapore’ assecondando la Torah. Ma c’è dell’altro.
Al tempo di Gesù, l’usanza dei pastori di cuocere il pane necessitava di placche di salgemma che, messe sul fondo del forno di terracotta, favorivano meglio il fuoco, alimentato per lo più dallo sterco degli animali. Ma sotto l’azione del calore e le conseguenti reazioni chimiche, il sale perdeva la sua caratteristica di sapidità. A quel punto, a null’altro serviva che a “essere gettato via e calpestato dalla gente”. Ora, poiché “la Bibbia si spiega con la Bibbia” e – come accennato – questo insegnamento viene subito dopo quello delle Beatitudini, colui che dice di appartenere a Cristo senza vivere le beatitudini, senza compiere le opere, diventa parados- salmente come il sale che non dà sapore, come colui che vive la religione dell’esteriorità che però non serve a nulla, anzi viene rifiutata.
Questo insegnamento di Gesù, che sembra decisamente severo e sprezzante, è invece segno di speranza: dice infatti che “la vostra luce derivante dalle vostre opere buone” è per una finalità universale che è la glorificazione del Padre da parte di tutta l’umanità (terra/mondo). E rischieremmo di cadere anche noi nell’esteriorità del ‘dover compiere le opere’ se non considerassimo che noi siamo già la luce del mondo.
L’essere luce è già la condizione del cristiano, perché egli porta il nome di Gesù Cristo che è la luce del mondo (Gv 8,12), come viene espresso nel canto al Vangelo. San Paolo ne è un esempio palese: sulla via di Damasco una Luce gli ha folgorato il cuore a tal punto da farlo vivere per Essa e fargli dichiarare di “non sapere altro se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso”. Questa Luce lo ha convertito dal ‘compimento delle opere’ a una vita interamente ‘compiuta’, cioè totalmente donata a Cristo e alla nascente Chiesa.
Con unanimità di intenti, la luce ha caratterizzato anche i riti conclusisi i giorni scorsi in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, quando si è svolto il “mandato di Cristo” all’interno del rito delle candele eseguito da parte di 12 fedeli che ne hanno propagato la luce a tutta l’assemblea, accompagnati dalle parole del celebrante: “Una candela accesa è un simbolo profondamente umano: illumina la tenebra, crea calore, sicurezza e comunità. Simboleggia Cristo, luce del mondo. Quali ambasciatori di Cristo porteremo questa candela al mondo, nei luoghi oscuri dove la lotta, la discordia e la divisione impediscono la nostra comune testimonianza” (testo a cura del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani). Ce la sentiamo di essere nel mondo questo tipo di luce? Papa Francesco ci incoraggia: “Ma che bella è questa missione di dare luce al mondo! È una missione che noi abbiamo. È bella!” (Angelus del 9 febbraio 2014).