Sono evidentemente i corpi i grandi protagonisti dei pellegrinaggi a Lourdes. I corpi di centinaia di persone, sane e malate, stipati in un treno per un più di un giorno e una notte di viaggio, dove la ristrettezza di scompartimenti e corridoi costringe a fare i conti con l’ingombro e la stanchezza del corpo altrui e proprio. I corpi che hanno lasciato il segno sulle pareti della grotta di Massabielle, levigate dal passaggio di milioni di mani. I corpi dei malati, a volte vistosamente segnati dalla sofferenza, e da accudire, sollevare, nutrire, abbracciare, immergere… I corpi dei volontari – barellieri e dame – le cui energie vengono spremute fino in fondo, in sette giorni e sei notti intensissimi di servizio.
A Lourdes emerge, dei corpi, non la gloria della salute e della bellezza, come ai Giochi olimpici, ma la fragilità della fatica e della malattia, che accomuna persone di ogni parte del mondo. Il lato, cioè, che la nostra cultura è sempre meno pronta ad accettare, rifiutando di farsi determinare dalla limitatezza del corpo. Un corpo malato che si vorrebbe sano, un corpo invecchiato che si vorrebbe giovane, un corpo sterile che si vorrebbe fecondo, un corpo brutto che si vorrebbe bello, un corpo maschile che si vorrebbe – magari – femminile…
In forza di questi umanissimi desideri l’Occidente ha dichiarato al corpo fragile una guerra senza quartiere, nella quale si chiede alla Medicina non già di curare e accompagnare il disagio, come ha sempre fatto, ma di eliminarlo, costi quel che costi. L’elenco potrebbe essere assai lungo, comprendendo fenomeni assai diversi: dalle politiche abortive eugenetiche all’utero in affitto; dal suicidio assistito alle pratiche estreme di chirurgia estetica. Dato che la fragilità del corpo ci risulta intollerabile, la sentiamo come una profonda ingiustizia rispetto agli ideali di bellezza, salute, efficienza e soddisfazione, incarnati nei corpi gloriosi di divi e atleti che ci vengono costantemente propinati.
A Lourdes si celebra una liturgia di segno opposto: la riconciliazione dell’uomo con la fragilità del suo corpo, esibita – quasi ostentata – con una disinvoltura che altrove apparrebbe sfrontata. Volti, arti e corpi malati, invecchiati e deformi, prendono parte con pieno diritto – anzi in prima fila! – all’imponente ritualità di Lourdes, che non si consuma solo nel recinto del santuario, ma anche nei luoghi che albergano pellegrini, volontari e malati. La fragilità non è solo tollerata, ma viene accettata con una serenità che è assai più della “cristiana rassegnazione” e che traspare dai volti di grandi e piccoli. Chi non c’è stato fa fatica a capire come ciò sia possibile, e come un luogo che evoca sofferenza e ricerca del miracolo come via di fuga dal dolore sia invece caratterizzato dalla gioia e dall’accettazione di sé.
Rispetto ai milioni di persone che si presentano dinanzi alla Grotta delle apparizioni, i miracoli – testimoniati da una rigorosa prassi di indagine medica – sono una quantità irrisoria. Essi sono solo il segno più eclatante di quella guarigione interiore – la riconciliazione con il corpo fragile – che è il vero, quotidiano prodigio di Lourdes. Lì si capisce, si sperimenta, che dichiarare guerra ai limiti del corpo può condurre solo all’eliminazione della persona o all’azzeramento della sua dignità. Nell’accettazione serena del limite come necessario ambito di espressione della propria libertà risiede invece la possibilità della vera realizzazione di sé. In questo senso, nella Francia del laicismo illuminista – ma anche del radicalismo islamico fideista – Lourdes è cattedra di autentico, modernissimo umanesimo.