Cos’è che preoccupa di più in questa crisi che il nostro Paese, insieme con l’Europa, sta attraversando? Certo, è la gravità oggettiva di essa. Certo, sono le conseguenze che dovremo attenderci per le nostre società, e soprattutto per i ceti più deboli. Certo, è il futuro, sempre meno chiaro, dell’unità europea. Ma si può dire che queste preoccupazioni esauriscano il quadro? Penso che non si possa proprio dirlo.
Il perché non è poi così difficile da vedere. Tutti, o quasi tutti, dai politici ai “tecnici”, ai commentatori di vario indirizzo culturale, ai comuni cittadini, riflettono sulla fase attuale come se fosse da leggere tutta e solo in negativo; come se fosse unicamente una partita in totale, irreparabile perdita, come se fossimo caduti in una depressione senza ritorno.
Ma non è così. In questa crisi molto perderemo, molto pagheremo, molto dovremo dare, e anche soffrire. Ma molto, se volessimo, potremmo acquistare, guadagnare. Cosa? La possibilità di capire che il modello di vita cui ci eravamo adattati, e in cui la maggioranza degli uomini e delle donne si trovavano decisamente a proprio agio (lasciando, in moltissimi casi, che i poveri se la vedessero da loro), è un modello sbagliato. È (era) fondato sul consumo ad oltranza, sull’esibizione del proprio status materiale di vita, sul narcisismo, sulla logica dell’apparire. Implicava l’enfasi sull’individuo come fine assoluto e sulla corsa al successo come obiettivo fondamentale dell’esistenza.
Si badi bene: al successo in attività di cui non contava la sostanza, ma ciò che esse potevano offrire per elevare il tenore di vita, la ricchezza, la possibilità di trasformare tutto in mia proprietà. Non una proprietà stabile, ma in continua crescita, fondata sulla possibilità di spendere, di acquisire senza mai sosta. Quindi una proprietà costantemente consumata, in cui l’uso valeva soprattutto per ostentazione, in attesa di acquisire beni che potessero essere ostentati più vistosamente. Auto, moto, vestiti, abitazione, televisori, computer: tutto lì, pronto per noi, fino a che nuovi modelli e nuove proposte non venivano a farci desiderare di avere una nuova auto, una nuova moto, un nuovo vestito, ecc. A costo, spesso, di debiti, di piccoli prestiti che si accumulavano fino a non poter spesso essere pagati. E allora nuovi prestiti per estinguere quelli vecchi, in una catena senza fine (o talvolta con fini tragiche).
Il punto centrale di tutto questo? La chiave di tutto? Forse è quella che si potrebbe definire la società dell’imitazione. Ma il modello da imitare era l’attore, la modella, il personaggio televisivo di successo, il manager (non per quello che effettivamente è, ma per quello che di lui ci appariva dai tanti film ad esso dedicati, un po’ alla Pretty Woman, insomma). Tutto il resto andava lentamente, ma inesorabilmente, scomparendo: il valore della vera cultura, della formazione alle virtù civili, l’importanza della condivisione, il senso della moderazione e della misura, la percezione dell’importanza che ha il conservare le cose, l’avere cura degli oggetti, il trattare le persone come prossimo e non come avversari nella pista della concorrenza sul mercato. E il tutto veniva legittimato da quanto trasmetteva la televisione: lì vedevamo riflessi i modelli cui la maggior parte di noi si atteneva nella vita, lì vedevamo i nostri ideali, i nostri grandi o piccoli “fratelli”. Cosa non avremmo dato per apparire al loro fianco! Per vincere in poco tempo, in un gioco, migliaia di euro, per far fortuna senza fatica, per essere “miracolati” dal conduttore di turno, in un mondo in cui ai miracoli veri non crediamo quasi più.
E allora: se questa transizione che stiamo vivendo, che siamo costretti a vivere (e a pagare), provassimo a considerarla anche un’occasione per riflettere su questo nostro modo di vita così futile, così povero, così vuoto? Se pensassimo che ogni crisi non ha soltanto aspetti negativi, ma contiene anche potenzialità positive? Che è una sfida, non un resa annunciata ancora prima di cominciare a combattere?
La possiamo affrontare in modo “depresso”, con la magra speranza di poter tornare a fare tutto come prima. O la possiamo fronteggiare cercando di capire che tornare a come stavamo prima non è solo impossibile, ma sarebbe un male. Proviamo a sfruttare la crisi come momento di meditazione seria su chi siamo, almeno in maggioranza, e su chi potremmo diventare se la smettessimo di educare i nostri figli ai disvalori più avvilenti, se recuperassimo per noi adulti e per loro un po’ di serietà, di consapevolezza dei limiti, di senso della parsimonia, di gusto per la custodia dei beni che ci sono stati affidati, materiali e immateriali, e che dovremo trasmettere alle generazioni che verranno dopo di noi.
La Chiesa potrebbe dire molto su questo, facendo valere oggi quel che per anni ci ha insegnato sui guasti del consumismo. Meraviglia un po’ che, per ora, non lo abbia fatto.
Le potenzialità positive della crisi
La fase socio-economica che stiamo attraversando ci offre chance da sfruttare
AUTORE:
Roberto Gatti filosofo della politica Università di Perugia