p align=”justify”Due notizie contrastanti che i lettori trovano sfogliando queste pagine de La Voce riportano situazioni diverse, di natura simbolica, che hanno per oggetto la croce. Da una parte viene riferito da una nostra lettrice che una chiesa è stata trasformata in moschea e la croce, scomparsa dal luogo dove mani pie e credenti l’avevano posta tanti secoli prima, è stata sostituita dal simbolo della mezza luna (pag. 2). Dove prima pregavano i cristiani ora vi pregano e si formano religiosamente, culturalmente e politicamente i musulmani. Dall’altra la notizia che sul K 2, riconquistato da alpinisti italiani è stata piantata una croce, la croce del grande Giubileo duemila (pag. 9). In queste due vicende si può scorgere la sorte storica di una fede che nel suo simbolo più forte si fa sorte diversa e opposta. Nel primo caso, quello della chiesa che diviene moschea, si sperimenta il rischio che una fede può morire insieme alla morte della comunità cristiana e scomparire anche fisicamente dopo essere stata cancellata dal sentimento e dalla coscienza di quelli che, un tempo fedeli, sono divenuti atei e si sono ritirati nell’indifferenza dando spazio ad altre fedi. Non si tratta, infatti, in questo caso, di un semplice gesto di accoglienza che è autentico quando una comunità ben definita e consapevole fa spazio ad una nuova e diversa comunità di persone. Qui si tratta, a quanto è dato sapere, di sostituzione. Via gli uni e avanti gli altri. L’accoglienza suppone la presenza amichevole di due comunità che si rispettano e dialogano tra loro per un progetto comune di collaborazione nella ricerca della promozione umana, della giustizia, della libertà e della pace. Questo infatti, e non altro, è il fine del dialogo tra le religioni, come si è evidenziato nei famosi incontri di Assisi a cui Giovanni Paolo II ha invitato rappresentanti di tutte le religioni del mondo. Far scomparire la croce e al suo posto installare un altro simbolo alternativo, sia pure rispettabile, di natura religiosa, fa pensare, purtroppo, a molti ai tempi torbidi quando le chiese diventavano musei o sale di concerto o palestre e innesca pericolosi sospetti e odiosità. So che nella storia degli Stati a ideologia comunista, si tratta di destinazioni diverse, in alcuni casi sacrileghe, ma l’esito per il cristianesimo che scompare si risolve in un analoga dichiarazione di morte. Nel secondo caso si nota una volontà di esaltazione della croce, tra i ghiacciai di una delle più elevate montagne della terra, nel solco di una tradizione cristiana di popolo che ha cosparso di croci monti e colli ovunque nell’Europa cristiana che oggi si vergogna di dirsi tale. Le croci sui monti sono una visione suggestiva e fanno parte del paesaggio. Evocano l’ascesa dell’uomo alla conquista di una vetta e l’ascesa dello spirito verso la sua perfezione ideale, il compimento di un sogno raggiunto a fatica con passi lenti e incessanti. Ma le due situazioni hanno una stridente differenza, perché la croce, nel primo caso, è scomparsa da una comunità di uomini e donne, in una situazione sociologicamente e culturalmente mutata. Nel secondo caso è posta nella solitaria purezza di un mondo lontano al cospetto del cielo e visitato dal sole e dal vento. I cristiani non possono rassegnarsi ad un esito segnato da questa doppia prospettiva. La croce sui monti va bene. Ma non deve scomparire là dove la gente vive e muore, perché è l’albero della speranza piantato nei campi, in mezzo alle case e alle piazze dove gioiscono e soffrono, lottano e sperano gli abitanti di questa terra.
Le croci sui monti
AUTORE:
Elio Bromuri