Tempi eroici, quelli di allora. Tempi diversamente eroici quelli di oggi. Perché, se le comunità di accoglienza non vogliono ridursi a comunità terapeutiche, devono sempre e comunque ripensare e rieditare i due loro valori fondanti: l’autogestione e la condivisione.
Autogestione dei processi di liberazione personale e comunitaria. Su questo piano la difficoltà nasce dal fatto che coloro che chiedono, o – meglio – per i quali viene chiesta la vita in comunità, oggi sono prevalentemente o a volte esclusivamente disabili psichici. Questo perché i disabili fisici nella quasi totalità dei casi “si sono sistemati”. Grazie anche alle dovute provvidenze che eroga lo Stato, grazie spesso anche all’impegno del privato-sociale a loro favore, fruiscono di un reddito decoroso, alcuni hanno messo su famiglia, fruiscono dell’abbattimento sempre più consistente della barriere architettoniche e psicologiche. Purtroppo non ha giovato loro la bella pensata di chiamarli “diversabili” invece che “disabili”, oppure (toh, mi voglio rovinare!) “handicappati”. Non ha giovato a nulla, la bella pensata, perché il più delle volte non hanno un ruolo nella società, non lavorano, girano sulla loro carrozzina a motore e chiamano “vita” l’accumulo dei giorni che passano: “vita”, un soprannome.
Ma per coloro che chiedono o – meglio – per i quali viene chiesta la vita in comunità, l’autogestione rimane ancora un valore? Certamente, certissimamente, perché, se la realtà in cui vivono non punta a tutta l’autogestione possibile, decade inesorabilmente. Prima decade da comunità d’accoglienza a comunità terapeutica, poi decade da comunità a gruppo di semplice sopravvivenza, come le riserve allestite per evitare l’estinzione della foca monaca o degli aironi rosa.
Decidere con loro. Un risultato possibile solo in ordine a una minoranza di problemi. E sempre molto faticoso. C’è chi confonde un sindaco con un sindacato, c’è uno che non capisce quella stranezza secondo cui a ogni diritto dovrebbe corrispondere un dovere, c’è poi quello convinto che toccare ogni tanto il fondoschiena delle operatrici sia tra i diritti sanciti dalla Carta dei valori della comunità, oltre che dall’Onu… Mille difficoltà, ma non si può rinunciare a maturare insieme tutto ciò che è possibile maturare insieme: a esigerlo è quella loro altissima dignità di persone che, in parità assoluta, essi condividono con tutti noi “normali”. È quella dignità che ci impegna ad aprire tutte le strade accessibili alle limitate chances della loro personalità.
Capisci allora, colendissimo lettore, che differenza c’è tra proclamare in linea di principio, tre volte al giorno, i diritti non negoziabili della persona, e giocarseli invece nelle concretezza del rapporto quotidiano con uno di loro, un “Song e’ Napule” che di quei princìpi ne ha fatto proprio uno solo: “E ffémmene so’ arrimmene dell’uomm’ne”. Lo donne sono la rovina degli uomini. Bene. Partiamo.