La ripresa del lavoro, in genere dopo le ferie estive, e dello stesso lavoro pastorale, è ambientata nel contesto della salvaguardia del creato, diventata in questi ultimi tempi una necessità sempre più avvertita e urgente tanto da diventare essa stessa un tema pastorale. Anche il creato è dono di Dio all’uomo perché ne sia il sovrano e lo conservi, ed anzi lo continui e lo migliori con l’apertura alla vita e con il lavoro. Collaboratori di Dio nel presente per essere suoi ospiti nell’eternità, quando ci saranno “cieli nuovi e terra nuova”. E scenderà dal cielo, da Dio, la città santa, “pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 21, 1-2).
Come eredi spirituali di Francesco d’Assisi non possiamo non cantare anche noi le laudes creaturarum (il Cantico di frate sole). Anche il creato è frutto della sapienza di Dio; anzi è il suo primo linguaggio, da tutti comprensibile, a meno che noi, fatti di terra, non ci ingolfiamo nella attrattiva della terra e dei sensi, al punto che, come ci ricorda realisticamente la prima lettura: “Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri”. La sapienza di Dio a noi partecipata ci salverà dagli equivoci.La seconda lettura è la deliziosa letterina che Paolo, orami invecchiato e prigioniero a Roma, scrive a Filemone, un cittadino benestante della comunità di Colosse, che possedeva alcuni schiavi. Uno di questi, Onesimo, fugge e raggiunge Paolo a Roma, ascolta la sua parola, si converte alla fede cristiana. Paolo lo rimanda a Filemone con espressioni molto affettuose: è “figlio mio, che mi sta tanto a cuore”. Sono le premesse motivate della lotta contro la schiavitù, che fu specifica dei cristiani in una società in cui gli uomini non erano tutti egualmente liberi e rispettosi per la loro e l’altrui innata dignità.
È la fede, infatti, che consente di vedere nell’altro il volto di Cristo e di onorarlo e amarlo come Cristo in persona. La Chiesa annovera tra i suoi Papi anche uno schiavo: san Callisto I (155-122), da cui prende nome una catacomba di Roma. In contrasto con leggi del tempo, consentì a donne del ceto nobile di sposare cristiani schiavi o affrancati. Il brano del Vangelo ci provoca con proposte di Cristo a prima vista sconcertanti. Sono le condizioni del discepolato che esigono scelte radicali e senza ripensamenti. “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita non può essere mio discepolo”.
L’uso di quel verbo “odiare” ha fatto molto discutere per la sua crudezza, ma è un verbo che sta ad indicare scelte nette e decise da attivare con l’amore. Il significato, al di là dello scandalo apparente, è: “Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre, la moglie, i figli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. E ancora: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo… Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Questo parlare in negativo sta ad indicare la radicalità della scelta e della sequela. Quanto alla croce, non ce la dobbiamo costruire con le nostre mani, ce la dà la vita: anzi è la vita stessa con le sue molteplici difficoltà. Occorre accoglierla senza mugugni, sapendo che ad aiutarci a portare la croce c’è sempre un “cireneo” che lo fa senza riluttanza, Gesù stesso. Ma c’è anche un altro insegnamento che Gesù vuol darci con le due parabole gemelle della torre di difesa e della guerra.
Chiunque si cimenta con queste imprese deve calcolare bene costi e ricavi, spese e risultati, per non dover poi lasciare incompiuti lavori e iniziative tra la commiserazione di tutti. E cioè anche la sequela di Cristo richiede impegno e continuità, quell’impegno e quella continuità che sono garantiti dalla forza incomparabile della povertà per scelta d’amore e della assoluta libertà di cuore. Gesù non vuole dietro di sé schiavi ricattabili, ma persone libere, determinate, serene per la bontà delle scelte.