L’angelo in soffitta

L’abatjour

Le letture delle messe dell’ultimo scorcio dell’anno liturgico, per noi che le abbiamo ascoltate fin dalla notte dei tempi, in latino, da chierichetti, con in mano le traduzioni del Messalino quotidiano della Marietti, hanno sempre avuto un sapore forte: minacciose quand’anche non terrificanti, pervase da un terrore vago ma insistente. Don Lorenzo le leggeva alzando la voce e muovendo la testa a titolo di embrionale sceneggiatura, e il suo latino s’impappinava ma paradossalmente si faceva capire anche meglio; erano un po’ come le sere invernali del Foscolo nel bellissimo sonetto omonimo, quando, dopo essere giunta per mesi al tramonto, lieve, danzante, corteggiata da nubi estive e zeffiri sereni, nella cattiva stagione la sera dal nevoso aere spalmava sul mondo inquïete tenebre e lunghe: con un procedimento simile, se non proprio identico, quando don Lorenzo leggeva, un friccico di paura invadeva anche le pie donne che erano a messa. E all’ateneo Lateranense il prof. Lattanzi (mons. Lattanzi) titolare di Teologia fondamentale in un ateneo che (ingiustamente) scalpitava per diventare Università, commentando i Vangeli del “Discorso escatologico”, ci si rivelava un contorsionista da circo, sapete, quegli omoni che si rivelano incredibilmente snodati e riescono ad entrare interi nella valigia con in mano la quale si erano presentati alla ribalta. Oggi gli esegeti ci dicono tutt’altro. Quelle profezie non sono profezie, ma lezioni propedeutiche su come affrontare nella giusta prospettiva le grandi sofferenze che a inevitabilmente attraversano il cammino della Chiesa e quello nostro personale, Gesù ha affrontato il grande problema del male ponendosi l’interrogativo cruciale: le sofferenze epocali, durissime, spaventose, incontestabili, sono l’inizio della fine o l’inizio di un nuovo inizio? Sono agonie, oppure vanno assimilate al travaglio del parto? La riposta vera è quest’ultima. Consolante per noi, ma con diverse controindicazioni. La prima delle quali è l’obbligo di mandar in soffitta gli angeli della tradizione, con l’ondeggiante tunica candida, le ali al punto giusto, la lunga tromba già appoggiata alle labbra. Se la Bibbia chiama “angelo” sia Mosè che Giovanni il Battista, c’è poco da fare: l’abito bianco va ripiegato e messo da parte, le ali e la tromba vanno rimesse nelle rispettive custodie. Piccoli inconvenienti per una prospettiva di grandissima consolazione. Quando, giovane prete, l’accennavo al mio don Lorenzo (“Sapete don Loré, ’l cardinal Balthasar ha detto che l’inferno sicuramente esiste, ma potrebbe anche essere vuoto!”), lui… beh! Non che gli dispiacesse, ma nemmeno l’entusiasmava, lui che per tutta la vita aveva minacciato l’inferno a desta e a manca, in un predica sì e nell’altra pure. Si stringeva nelle spalle: “Avremo fatto ’l mestiere per arméttece!”.

AUTORE: a cura di Angelo M. Fanucci