L’amaro del miele

Anche le api umbre sono rimaste vittima della morìa che le colpisce in tutta Italia. Crolla la produzione del miele. Che cosa sta succedendo?

Le api muoiono, e crolla la produzione di miele italiano. Secondo l’Osservatorio nazionale miele sarebbe fuori gioco circa il 50 per cento degli alveari italiani (600 mila su un totale di un milione e 200 mila). In Umbria la situazione è migliore rispetto alle regioni nordiche ‘del miele’ ad agricoltura più industrializzata (Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia) ma il problema resta. ‘L’ape è un animale sensibilissimo alle mutazioni ambientali’, afferma il presidente dell’Associazione produttori apistici umbri (Apau), Vincenzo Panettieri, apicoltore da 30 anni. In Umbria, l’Apau riunisce circa 23 mila alveari su un totale di 32 mila. ‘Le nostre api – continua – si sono molto indebolite, anche se in questo periodo notiamo negli alveari qualche lievissimo cenno di ripresa’. Le cause? ‘La morìa delle api – dice Panettieri – è probabilmente legata a più fattori. Ma, in primo luogo, si temono gli agrofarmaci di ultima generazione. In particolare i neonicotinoidi e, più in generale, i fitofarmaci cosiddetti sistemici, ossia quelli che ‘entrano in circolo’ nelle piante. Non a caso il loro uso è vietato durante la fioritura. Gli agrofarmaci rischiano di rovinare l’ambiente stesso. Le api, in questo caso, sono le sentinelle della vita, anche della nostra: se loro stanno male o muoiono è ora di dirsi chiaramente che stiamo abusando, in maniera immorale, della natura che ci circonda’ dichiara Panettieri. La Regione Toscana ha chiesto, proprio il 1’settembre, di sospendere in via cautelativa l’impiego di alcuni antiparassitari indicati come responsabili delle diffuse morìe delle api. Al ministro delle Politiche agricole e al ministro della Sanità, i toscani chiedono di far fronte ai danni provocati – a quanto emerge da una prima serie di analisi – da alcuni prodotti della famiglia dei neonicotinoidi usati per la concia delle sementi, in particolare per quelle di mais e girasole. ‘Tale misura – aggiunge Panettieri, – è già in vigore, dai primi mesi di quest’anno, in Francia, Slovenia e Germania’. Mentre si attendono le decisioni di palazzo Chigi, la produzione di miele italiano (e umbro) ha già accusato il colpo. ‘Sono ormai nove anni – afferma il presidente della Cooperativa apicoltori eugubino-gualdese, Valter Ambrogi – che la produzione dei nostri mille alveari è ferma a meno di 10 chili ad arnia. La precedente media era di 25-30 kg, con punte eccezionali di 50 chili come avvenne nel 1999. Ma oggi è tutt’altra storia e i giovani apicoltori, che hanno sostenuto molte spese per avviare l’attività (il costo di un’arnia completa è di circa 250-300 euro, ndr), ora l’abbandonano’. La morìa delle api italiane, verificatasi più nelle pianure coltivate che in collina, potrebbe essere in buona parte imputabile agli agrofarmaci di sintesi, alcuni dei quali (i neonicotinoidi) da bandire per precauzione, come già fatto da altri Paesi europei. Ma le api, comprese quelle umbre, potrebbero essere ‘disturbate’ anche da altro, come campi elettromagnetici (alcuni studi hanno dimostrato che le api, se collocate sotto i cavi dell’alta tensione, si disorientano e diventano aggressive) e fattori microclimatici: siccità, ritorni di freddo eccessivo, ecc. Questo spiegherebbe la morìa delle api, avvenuta in Umbria ‘a macchia di leopardo’, anche in alta collina. Il presidente dell’Associazione italiana allevatori di api regine (Aiaar), Tiziano Gardi, professore alla facoltà di Agraria dell’ateneo perugino, ritiene che tra le diverse cause di morìa di alveari una sia strettamente imputabile all’importazione di api regine e pacchi di api dall’estero. Infatti, davanti alla necessità di rimonta di api regine da parte delle aziende apistiche – alle quali gli allevatori italiani non riescono sempre a far fronte – un gran numero di esse vengono ogni anno introdotte da altri Paesi. Dove il basso costo di manodopera e stagioni apistiche molto più prolungate di quella italiana permettono di porre sul mercato materiale genetico estremamente concorrenziale dal punto di vista economico. ‘Però tale materiale genetico – spiega Gardi -, se pur appartenente alla razza ligustica, non rispecchia affatto l’adattabilità dell’Apis mellifera ligustica autoctona alle condizioni climatiche e di fioritura del nostro Paese. Ne consegue che le colonie in cui vengono introdotte non riescono a formare scorte per l’inverno, producono covate a dismisura in assenza di fioriture, sono meno resistenti alle patologie dell’alveare e sono fonte d’importazione di ceppi virosi e batteriosi del tutto atipici per una ligustica di casa nostra’. Le regine ‘pericolose’ proverrebbero in gran parte dall’Australia e soprattutto dalla Cina. Sul mercato italiano ne entrerebbero ufficialmente dalle 5 alle 6 mila all’anno, ma si ritiene che il mercato clandestino dell’ape regina ‘straniera’ ne immetta fino a 10 volte di più nel nostro Paese.

AUTORE: Paolo Giovannelli