Il senso generale della liturgia di questa seconda domenica di Quaresima è quello di un incoraggiamento a chi è incamminato verso la conversione, lungo la via della penitenza, mostrando l’esito finale di questo percorso: l’incontro con il Cristo risorto e glorificato, che anticipa la “gloria” finale con la sua singolare trasfigurazione, impregnata della luce di Dio. È anche interessante vedere la corrispondenza con l’evento dall’Orto degli olivi, dove c’è un’altra “trasfigurazione”, impregnata, questa volta, del buio del peccato che tortura anche fisicamente Gesù, e che si concluderà con la sua crocifissione su un patibolo e la trafittura del cuore. Nella sofferenza è coinvolto quel corpo che lo è oggi nella trasfigurazione, e ancor più lo sarà nella glorificazione del Risorto.
Giovanni testimonia l’evento nel suo Vangelo (“Noi vedemmo la sua gloria”, Gv 1,14); ed anche Pietro nella sua ultima lettera, scritta a mo’ di testamento come “testimone oculare”: “Gesù ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: Questi è il mio Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2 Pt 1,17-18). Non ci prenda quindi lo smarrimento dinanzi alla via penitenziale, che sfocerà nella consolazione della vita nuova. Lo dice chiaramente l’apostolo Paolo nella sua lettera alla comunità cristiana di Filippi: non abbiate paura della “via stretta” che conduce al Regno, e non vogliate essere dei gaudenti che hanno il ventre per loro dio, “tutti intenti alle cose della terra”.
Non si tratta di un moralismo di basso profilo, perché “avere il ventre per dio” non è cosa di lieve importanza. Tale è la lussuria con tutte le sue varianti (pedofilia, pornografia, libidine, stupro, dissolutezza di costumi ecc.) e il consueto corteggio di violenza, sfregio, abbandoni… E tale è l’ingordigia con le sue varianti (l’insaziabilità, l’ubriachezza, la tossicodipendenza, il vizio del gioco ecc.). In ogni contesto dell’attività umana c’è bisogno di un’etica, cioè d’una regola morale che guidi i nostri istinti perché non divengano i nostri padroni. Si pensi, tanto per far degli esempi di attualità, alla mancanza di un’etica personale e collettiva nel mondo della finanza, degli affari, della politica, dell’economia, dell’amministrazione, della scienza, della vita… Sono scandali che si ripetono sotto gli occhi di tutti, eppure non sono capaci di generare quella indignazione seria e condivisa che è almeno l’inizio d’un risorgimento etico.
Un’alleanza del genere era avvenuta già con l’Abramo della prima lettura, il prototipo del credente, il quale lasciò la sua Ur e i suoi beni per inseguire un sogno, una “voce” che veniva da Dio: “Conta le stelle, se ci riesci: tale sarà la tua discendenza”. Abramo, in segno della sua fedeltà alla parola di Dio, offrì un sacrificio come usava nei patti solenni tra due contraenti, dividendo cioè gli animali in due parti con il macabro auspicio che potesse avvenire altrettanto a chi non avesse rispettato il patto suggellato nel sangue. I due contraenti erano addirittura Dio e Abramo: il “Tutt’altro da noi”, il Giusto, il Santo, e l’umile arameo errante di Ur dei Caldei. Quell’Abramo è oggi ciascuno di noi, con cui Dio vuole fare alleanza. E Dio si impegna totalmente in ciò che dice: lo ha mostrato con il passaggio della fiaccola tra le due parti degli animali. Il Salmo responsoriale ci ha fatto rinnovare la preghiera della speranza nell’aiuto di Dio, vista la nostra fragilità nel tener fede al patto di alleanza: “Il tuo volto, Signore, io cerco, / non nascondermi il tuo volto” (Sal 1).