L’affermazione più rivoluzionaria di tutto il Nuovo testamento mi sembra possa essere proprio l’espressione di Paolo nella Lettera ai Galati: “Tra coloro che sono stati battezzati in Cristo non c’è più giudeo, greco, schiavo o libero, maschio o femmina, perché tutti sono uno in Cristo Gesù”. Sono superate d’un balzo le distinzioni e le divisioni etniche, sociali, linguistiche, culturali, persino sessuali, perché tutti sono egualmente figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, cellule del suo Corpo ecclesiale. O, per dirla in forma ancora più provocatoria con il beato Isacco della Stella, siamo “il Cristo totale e integrale, Capo e Corpo”; ed anzi “tutto il Corpo che è la Chiesa, con il Capo, che è Cristo, Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Dio”. Sono certamente intuizioni mistiche, che dilatano gli spazi della fede, ma non certo quelli della presunzione.
Eppure ci aiutano a capire anche il nostro ruolo nella storia, quello di creare la civiltà dell’amore, passando attraverso innumerevoli contraddizioni e contestazioni che sanno di croce. Il brano del Vangelo ci rimanda infatti all’identità di Gesù, il quale fa una breve indagine conoscitiva tra i discepoli per sapere cosa la gente dica di lui, e tra i discepoli stessi per verificare che cosa, dopo tanti giorni che stanno con lui, abbiano effettivamente capito di lui. Risponde Pietro a nome di tutti con un preciso atto di fede: “Tu sei il Messia atteso che è venuto, il consacrato di Dio”. Più tardi dirà in maniera esplicita e definitiva: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16), e meriterà da Gesù stesso l’appellativo di “beato” perché ha saputo accogliere l’illuminazione interiore di Dio stesso.
Ma nell’uno e nell’altro caso è già adombrata sia la Via crucis del Figlio di Dio, sia la Via crucis di coloro che vorranno seguirlo. A questi ultimi Gesù dice di prendere ogni giorno la propria croce e di seguirlo. La “croce” da portare al seguito di Gesù è, prima di tutto, la croce della vita così come ci viene data, senza lamentazioni, accogliendola in pace e con gratitudine. Dice anche di non vergognarsi mai di Cristo, della fede religiosa che ci caratterizza: cosa oggi tutt’altro che facile, per la paura che abbiamo di qualificarci e di comportarci anche pubblicamente come cristiani. “Chi si vergognerà di me e delle mie parole – ammonisce però Gesù -, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui”. Se c’è qualcosa di cui dobbiamo vergognarci è il male che facciamo, il peccato, che è sempre offesa di Dio, di noi stessi, degli altri, della stessa natura di cui ci serviamo per fare e per organizzare il male.
Già il profeta Zaccaria aveva intuito nelle sue visioni profetiche la fatica di restare fedeli all’Altissimo, intravvedendo un “trafitto” che tutti poi piangono come si piange il primogenito, ed anzi volgeranno a lui lo sguardo perché in quel “vinto” troveranno la forza per portare con lui la croce della vita. Ma le nostre croci, dopo quella di Gesù, sono sempre “croci gloriose” perché tale ne è e ne sarà l’esito, se persevereremo nella fedeltà. L’autore della Lettera agli Ebrei ci esorta: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (12,3). Una invocazione frequente sulle labbra di santa Chiara d’Assisi, in vita e soprattutto sul letto di morte, era: “Grazie, Signore, perché mi hai creato”.