Non so da quanti anni nell’énclave medievale nella quale vivo sento dire che è in atto la riforma dei libri liturgici. Bene. Siamo in attesa. Siamo in attesa che quel “non ci indurre in tentazione” venga cambiato con qualcosa di meno blasfemo. Siamo in attesa che venga sciolto l’equivoco di quel “si” delle preghiere d’intercessione, tra la consacrazione e il Padre nostro. Leggiamo: “Ti preghiamo per i defunti che si affidano alla Tua clemenza”. Se quel “si” è passivante (“si affidano”= vengono affidati) va bene, ma se quel “si” è riflessivo diretto (“si affidano”= affidano se stessi), no, non ci siamo. Ho avuto diversi amici che sono morti bestemmiando di cuore. Uno poi s’è suicidato lanciandosi con la corda al collo dalla balconata della casa di campagna, alla quale aveva appena dato fuoco, e contemporaneamente sparandosi con due pistole a tutt’e due le tempie. Tanto tempo fa.
Questi miei amici non raccomandarono se stessi nell’atto di varcare la soglia della vita eterna. Se quel “si” fosse un “si” riflessivo diretto, essi sarebbero perduti. Ma che ci azzeccherebbe, questo, con la promessa che Gesù fece al Padre? “Riporterò a te tutti quelli che mi hai affidato”. E l’enorme sofferenza del suicidio assurdo, o della bestemmia in faccia alla morte, conferma: tutti, tutti. Siamo in attesa che, nell’ostensione del pane consacrato ai comunicandi, il sacerdote non dica più: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo”, perché quella che viene annunciata non è un’amnistia, è ben altro: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che si carica del peccato del mondo e lo perdona”. Siamo in attesa.
Il 25° anniversario della strage di Capaci ha scatizzato in me, come quando negli antichi camini si muoveva un po’ la cenere con la paletta, un’altra attesa: quella dell’ampliamento del nostro Santorale. Quella della creazione di un altro cielo, vicino a quello dove brillano Luigi Gonzaga e Paolo di Tarso, Pietro di Cafarnao e Gianna Beretta Molla; quello del giudice Rosario Liviatino. Un altro cielo. Quello dei Santi civili. Di Giovani Falcone, che dice: “Sono un morto che cammina”, e va avanti lo stesso. Quello di Paolo Borsellino, che nei 57 giorni intercorsi fra Capaci e Via d’Amelio si reca ogni mattina alla stessa ora a prendere la caffè sempre allo stesso bar, a comprare lo giornale sempre alla stessa edicola, e tutto alla stessa ora… nella vana speranza che lo uccidano, ma risparmino la sua scorta. Il cielo di Boris Juliano, di Salvatore Basile, di Ninni Cassarà, di Rocco Chinnici… Un altro cielo.