“Io sono la via, la verità e la vita” risponde Gesù a Tommaso nel brano evangelico che leggiamo in questa V domenica di Pasqua e che propone una parte dell’ultimo discorso che Gesù tiene agli apostoli. Quello che lui sta facendo non è un discorso di addio, ma di garanzia che non lascia soli coloro che lo hanno seguito. Ma Gesù sa che essi vivranno il lacerante dolore del distacco che sarà causato dalla imminente morte. Gesù stesso ne ha fatto esperienza nel momento in cui è morto il suo amico Lazzaro. L’autore infatti usa lo stesso verbo con cui ha designato lo stato d’animo di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro, “turbarsi” (in gr. tarassein), e così ora lo mette in bocca a Gesù “non sia turbato il vostro cuore”.
Le parole di Gesù continuano poi a rassicurare gli apostoli perché lui va a preparare per loro le “dimore nella casa del Padre”, tornerà, verrà a prenderli e li condurrà a stare con lui. Nell’immaginario giudaico le ‘dimore’ erano significative, infatti nell’apocrifo II Esdra si fa distinzione tra le anime dei malvagi che non entreranno nelle ‘dimore’ e quelle dei giusti che invece vi entreranno (cf. 7,80.101). La finalità escatologica è palese, “Egli prepara le dimore preparando coloro che dovranno abitarvi” afferma sant’Agostino (PL 35,1814), ma dalle domande che poi rivolgono a Gesù due apostoli, si percepisce il desiderio di sperimentare già ora la beatitudine della vita con lui.
Intervengono infatti due apostoli, Tommaso e Filippo. Il primo è noto per il suo slancio affettivo perché in occasione della morte di Lazzaro si è espresso dicendo: “Andiamo anche noi a morire con lui” (11,16), ma è anche noto perché ha dubitato della manifestazione di Gesù agli altri apostoli quando lui era assente. Ebbene, proprio lui in questa solennità dell’ultimo discorso, come a voler significare la fedeltà della sua sequela, chiede: “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”. Ecco allora la risposta di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”. Comprendiamo quindi che la domanda di Tommaso desiderava avere non una risposta nozionistica, ma ‘vocazionale’. L’Antico Testamento presenta molteplici brani in cui la ‘via’ è abbinata alla ‘verità’. Il Salmo 86, nel suo parallelismo: “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini”, palesa lo stile di vita del vero israelita che si lascia indirizzare nel suo cammino di vita dalla Legge. Gli stessi primi cristiani sono stati chiamati “uomini e donne appartenenti a questa Via” (At 9,2), intendendo per ‘via’ la novità del Vangelo. Infatti, ora la ‘via’ è una Persona, è Gesù che vive in relazione al Padre.
A questo punto sopraggiunge con la sua ardita richiesta l’altro apostolo, Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Filippo è colui che si caratterizza per l’aspetto del ‘vedere’. Dice infatti a Natanaele di seguirlo perché lo conduce a ‘vedere’ Gesù (Gv 1,46) e dei Greci si avvicinano a lui perché faccia loro ‘vedere’ Gesù (Gv 12,21). In questa occasione è Filippo stesso che chiede qualcosa di inaudito. Nella letteratura del Vicino Oriente antico la visione di Dio era sinonimo di morte perché non si poteva pensare di vedere Dio e continuare a vivere. Mosè ha chiesto al Signore: “Mostrami la tua gloria” (Es 33,18), ma il Signore gli ha risposto: “Non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere” (Es 33,20). Mosè ha tuttavia avuto una relazione del tutto particolare con il Signore perché è anche scritto che quando si presentava “davanti al Signore per parlare con lui, Mosè si toglieva il velo” (Es 34,34).
Anche gli apostoli hanno avuto questo privilegio perché “chi ha visto me” dice Gesù “ha visto il Padre”. L’Halakà dice che “un rappresentante è uguale a colui che lo ha mandato”, così come il Talmud (Qiddushin 43) a proposito dell’inviato scrive che “il suo rango è pari a quello del suo signore”. Gesù rivela il volto del Padre e gli uomini sono così misticamente ammessi a vedere la mutua relazione tra Gesù e il Padre in quanto, come ci ricorda l’antifona d’ingresso, “a tutti i popoli ha rivelato la salvezza” (Sal 98,2).
Questo messaggio teologico, tra i più ardui per la mente umana, ci viene ‘avvicinato’ visivamente dalla genialità di Michelangelo nella Cappella Sistina dove “Cristo è la visibilità dell’invisibile Dio. Per mezzo di lui, il Padre compenetra l’intera creazione e l’invisibile Dio si fa presente tra noi e comunica con noi” (Giovanni Paolo II, 08.04.1998), come anche nella cosiddetta ‘nuova Sistina’, ovvero la Redemptoris Mater realizzata da Rupnik in cui “l’uomo tramite l’incarnazione di Cristo risale fino alla vita interiore di Dio nella Santissima Trinità” (P. Marini, 14.11.1999). Credere e vivere questo mistero dà la forza al cristiano di compiere le opere che Gesù compie “e ne compirà di più grandi di queste”.