Il Vangelo di oggi sia apre con una richiesta: “Vogliamo vedere Gesù”. Vedere Dio è un’aspirazione sempre viva nel cuore dell’uomo di fede. Guidava i pellegrini ebrei verso il tempio di Gerusalemme e si esprimeva con il grido dell’assetato. La sete di Dio veniva paragonata a quella della cerva che bramisce sul letto inesorabilmente asciutto del torrente: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sl 42,2s). Una sete mai appagata totalmente perché “Dio, nessuno lo ha mai visto”. L’occhio umano non è attrezzato ad una visione che risulterebbe accecante e mortale. Il Vangelo ci dice che Dio ha ascoltato quell’anelito struggente e ha mandato il suo Figlio, sua vera immagine, in un carne uguale alla nostra: “Proprio l’unigenito Dio che è nel grembo del Padre ce lo ha rivelato” (Gv 1,18). Perciò Gesù poteva dire a Filippo (proprio l’apostolo al quale si rivolgono oggi i greci) che gli chiedeva di vedere il Padre di cui tanto Gesù parlava : “Da tanto tempo sono con voi e tu, Filippo, non mi hai ancora conosciuto? Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9).
Nel volto di Cristo risplende dunque la gloria del Padre, quella di cui Gesù ci parla nel brano del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Nel nostro cammino verso la Pasqua abbiamo bisogno di riscoprire il vero volto di Dio, che si manifesta in Gesù con tutto il suo amore per l’uomo. Siamo nel tempio di Gerusalemme, dove Gesù sta insegnando. Un gruppo di greci convertiti al giudaismo, e chiamati proseliti, venuti in pellegrinaggio per la festa di Pasqua, si avvicinano all’apostolo Filippo e gli esprimono il desiderio di conoscere personalmente Gesù: vogliono essere presentati a lui. Filippo chiede ad Andrea di accompagnarlo e insieme vanno a dirlo a Gesù. I due discepoli, secondo la tradizione cristiana, partiranno in missione proprio tra i greci dopo la risurrezione di Gesù. Non ci viene detto se quel gruppo di greci fu ricevuto da Gesù, ma ci viene riferito il discorso che Gesù tenne per l’occasione prendendo lo spunto da quella richiesta. Illustra la vera fisionomia di Cristo così come dovrebbe essere vista e creduta da ogni cristiano vero: quella del Signore crocifisso e glorificato, che i discepoli dovranno annunciare ai greci e a tutti.
Al centro c’è lo scandalo della croce, vista però dalla parte di Dio, non tanto come morte infame e crudele, ma come manifestazione della salvezza di Dio, come preludio della risurrezione gloriosa e della vittoria sul Maligno che tiene schiava l’umanità come principe crudele e tiranno. Il discorso è l’ultimo tenuto da Gesù in pubblico e quindi il più riassuntivo del suo messaggio. La venuta dei greci è il segno della conversione dei pagani, più volte annunciata da Gesù (Gv 4,42; 10,16; 11,52). Gesù annuncia che è giunta la sua ora, quella “di passare da questo mondo al Padre” (13,1), l’ora della morte in croce, ma anche quella della sua glorificazione, vista come ritorno alla sua condizione divina di gloria, con la risurrezione. Per esprimere l’efficacia del suo sacrificio Gesù prende in prestito dalla campagna la similitudine della semina: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”. È l’esperienza più comune, quella della fecondità della morte come legge della vita: non si semina il chicco di grano per uccidere la vita che è in esso, ma per farla sviluppare nel frutto rigoglioso della spiga. Se non passa per la morte, il seme rimane solo e sterile; la morte gli consente di moltiplicare la sua vita “per cento, per sessanta, per trenta” come nella parabola del seminatore (Mt 13,8).
Gesù usa anche un’altra similitudine per illustrare la fecondità del dolore: quella della donna che partorisce con dolore una nuova vita (Gv 16,21). Su questo motivo allarga la legge anche ai suoi seguaci, invitandoli a seguirlo su questa strada misteriosa e difficile della fecondità spirituale. I termini contrapposti di “amare” e “odiare” la vita, fanno parte del linguaggio paradossale semitico. Vogliono dire che chi ama la propria vita come bene egoistico da tenere per sé, la perde; chi le spende senza risparmio come bene prezioso da donare con amore, la conserva per la vita eterna. Questo dono di sé è il servizio che ogni credente deve rendere a Gesù in cambio del suo amore generoso. Gesù non nasconde che quel suo sacrifico gli costa molto, lo turba profondamente, ma pronuncia con decisione la parola dell’obbedienza. Giovanni sembra anticipare qui l’ora dell’agonia al Getsemani di cui parlano gli altri tre Vangeli: c’è la richiesta al Padre di risparmiargli quel calice amaro, ma anche il desiderio prevalente di compiere la sua volontà con un atto di obbedienza totale. Tanto più che la morte non è fine a se stessa, ma è in vista della risurrezione.
Il Padre lo rassicura con una voce dal cielo, scambiata dagli astanti per un tuono o per la voce di un angelo (l’angelo consolatore del Getsemani di Lc 22,43). Quella voce è la stessa udita al Giordano e sul Tabor. Dio conferma che ha già glorificato il Figlio con i miracoli da lui compiuti, ma lo glorificherà definitivamente con la risurrezione dai morti. Sarà quella l’ora del suo trionfo sul male del mondo, che ha rifiutato Dio e ha eletto suo principe il demonio. Contro una visione pessimistica del mondo totalmente dominato dal demonio e dal male, Gesù afferma che vero Signore degli uomini resta Lui perché, quando sarà innalzato sulla croce attirerà tutti a sé. Domenica scorsa parlava di sé come del serpente innalzato nel deserto da Mosè per salvare il popolo dai serpenti velenosi. Oggi, ancora più chiaramente, predice che egli stesso sarà innalzato in croce; allora sarà una potente calamita di salvezza per tutti. Sta a noi lasciarci trascinare da questa corrente salvifica che ci fa una cosa sola con lui. La sua gloria sarà l’averci strappato al principe di questo mondo, e averci fatti figli di Dio in lui e con lui.