Il Vangelo di oggi pone un problema di grande attualità, che possiamo tradurre in soldoni così: “Si devono pagare le tasse?”. In tempi di forte evasione fiscale e di elusione, la domanda è scottante. Anche perché la nostra catechesi finora è stata carente su questo tema e non ha formato coscienze troppo attente a questo dovere civico. Non è infrequente trovare cristiani che, senza farsene un problema di coscienza, praticano il lavoro nero, fatturazioni fittizie o mancanti, scontrini dimenticati, Iva facilmente evasa. I peccati di questo genere sono pressoché sconosciuti e tanto meno confessati. Dobbiamo essere riconoscenti a quei farisei che, sia pura in forma malevola, pongono a Gesù il quesito di cui sopra.
Siamo sotto i portici del tempio di Gerusalemme, dove ormai Gesù ha fissato la sua cattedra di insegnamento, nei giorni che precedono la sua ultima Pasqua. Scribi e farisei fanno a gara per contraddirlo e tendergli tranelli dottrinali, in polemica aperta contro quel rabbi galileo che riscuoteva tanto successo di pubblico. Questa volta si uniscono a loro anche gli erodiani, appartenenti al partito politico di Erode Antipa, che regnava sulla Galilea, naturalmente amici dei romani. Dopo un falso elogio all’onestà, alla chiarezza, all’amore per la verità mostrati sempre da Gesù, gli pongono a bruciapelo la domanda tranello: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Sia pure a denti stretti, questi suoi avversari riconoscono che Gesù annuncia la verità di Dio con imparzialità, senza pregiudizi e senza riduzioni, non guardando in faccia a nessuno. Gesù, che conosce i pensieri dell’uomo, li tratta da “ipocriti”, falsi adulatori.
La tassa che bisognava pagare era un tributum capitis, cioè un testatico che riguardava le singole persone. I romani l’avevano introdotta nell’anno 6 d.C. quando deposero il crudelissimo Archelao, re della Giudea e della Samaria, e inviarono al suo posto un procuratore romano di nomina imperiale. Per sostenere l’aggravio di spese del nuovo inquilino, l’imperatore Augusto istituì una tassa annua pro capite di due denari d’argento che gravava su tutti gli ebrei di Palestina, uomini e donne, schiavi e liberi, dai 12 ai 65 anni. Era una tassa analoga a quelle che gli ebrei pagavano per il Tempio, e che abbiamo visto versata esemplarmente da Pietro anche a nome di Gesù, dopo averla trovata in bocca al pesce pescato nel lago (17,24-27). Era riscossa da funzionari imperiali inflessibili, anche se gli zeloti si rifiutarono sempre di pagare, perché riconoscevano solo la sovranità diretta di Dio su Israele, non quella romana. Questo portò spesso a disordini e ribellioni.
La domanda era studiata in modo tale che Gesù doveva rispondere sì o no, senza possibilità di evasione. Su quella risposta si sarebbe giocata comunque la sua reputazione. Se rispondeva “sì”, andava contro l’opinione popolare, sempre restia a pagare un tributo gravoso, rifiutato anche per motivi religiosi alla maniera degli zeloti. Avrebbe così avuto contro l’opinione pubblica, che lo avrebbe ritenuto un collaborazionista dei romani, e lo avrebbe squalificato. Se rispondeva “no”, sarebbe stato accusato di ribellione e di sovversione presso l’autorità romana. Gli erodiani erano lì per questo insieme ai farisei. Gesù vola alto per evitare la trappola e chiede: “Mostratemi la moneta del tributo”. Egli non possiede denaro, perché ha scelto di vivere povero (Mt 8,20); chiede a chi ne possiede di mostrargli la moneta d’argento del tributo. Ma questo, nel luogo in cui siamo, era una specie di sacrilegio, perché era proibito introdurre nel Tempio monete con l’immagine incisa dell’imperatore-dio. Tale offesa alla dignità del luogo la compie proprio chi è venuto per accusarlo di empietà. Comunque, senza alcuno scrupolo, gli mostrano il denaro che portava l’effigie di Tiberio Cesare (14-36) con la scritta in latino che traduco letteralmente: “Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto, pontefice massimo”. Gesù mostra a tutti la figura e la scritta e, a sua volta, domanda con arguzia: “Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?”.
Ingenuamente rispondono: “Di Cesare”. La contromossa di Gesù ora è facile: scacco matto! La partita è vinta magistralmente. Il centro dell’insegnamento ora sta tutto nella risposta di Gesù: “Date a Cesare ciò che è di Cesare e date a Dio ciò che è di Dio”, una risposta ricca nella sua semplicità, che mette in contrapposizione l’imperatore e Dio. Nel conflitto di competenze è sempre Dio che deve prevalere, a Lui si deve l’obbedienza assoluta. Lo afferma chiaramente Pietro nei giorni che seguono la Pentecoste, rispondendo al Sinedrio che gli proibiva di annunciare Gesù risorto: “Se sia giusto davanti a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto” (At 4,19s; 5,29). Questo principio ha fatto nascere il martirio nella storia della Chiesa. Molti credenti hanno offerto la vita pur di essere fedeli a Dio, in violazione alla leggi ingiuste dello Stato. Questo non vuol dire che il cristiano sia un ribelle nato.
Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, sudditi di Nerone Cesare (54-68), insegnava loro: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. Quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna” (Rm 13,1s). San Pietro ribadisce lo stesso atteggiamento di lealtà nei confronti del governo: “State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come suoi inviati… Operando il bene, voi chiudete la bocca all’ignoranza degli stolti” (1 Pt 2,13-16).
Sono testi densi di dottrina, niente affatto reazionari, che derivano dalla sentenza pronunciata sinteticamente da Gesù. Essa pone une netta distinzione tra Dio e il mondo, tra autorità religiosa e autorità politica, tra Chiesa e Stato, ognuno sovrano nel suo ordine. Nessuno può invadere l’ambito di Dio unica fonte della morale. Nessun Cesare può ritenersi un dio, padrone delle coscienze dei suoi sudditi. Nessuna ideologia può condizionare il comportamento umano. In tal caso, il credente non ha alternative: deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Al di fuori delle contrapposizioni, ideologiche o reali, ogni cittadino credente deve comportarsi con lealtà e giustizia nei confronti dello Stato e delle sue leggi, anche quelle fiscali. Questa è volontà di Dio per tutti; il resto è peccato, anche se l’opinione pubblica oggi non lo ritiene tale.