La ricompensa “immeritata”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXV Domenica del tempo ordinario - anno A

“Il regno dei cieli è simile a…”. Così inizia la lettura evangelica di questa 25a domenica del tempo ordinario; abbiamo incontrato questa espressione molte altre volte. Come abbiamo avuto occasione di precisare da queste colonne, in questo contesto, essa non vuol dire “paradiso”, ma piuttosto l’agire sovrano di Dio nella storia. Concretamente, è come se dicesse: nel suo agire sovrano, Dio opera così. Tanto valeva ripeterlo. Ecco come opera. La vicenda narrata nel racconto parabolico si svolge nel giro di una giornata lavorativa, che all’epoca andava dal sorgere del sole al tramonto. I luoghi sono due: il primo è la piazza del mercato, dove si svolgeva la vita pubblica cittadina, il secondo è la vigna. Protagonista è il padrone della vigna, un proprietario terriero che ha bisogno di abbondante mano d’opera.

I lavoratori sono reclutati direttamente da lui, ogni tre ore; tranne l’ultimo gruppo, che entra in scena solo un’ora prima del tramonto. Questa sorta di bracciantato giornaliero era la forma ordinaria di lavoro dipendente. La parte del racconto che si svolge nella vigna si divide in tre momenti: il pagamento del salario (Mt 20,8-10), la protesta degli operai assunti nella prima ora della giornata (vv. 11-12), la risposta del padrone (vv. 13-15), nella quale si concentra il nucleo significativo della parabola. Vale la pena guardarlo più da vicino. Anzitutto egli rivendica la propria correttezza sul piano della giustizia retributiva: “Amico, non ti faccio torto; abbiamo contrattato per un denaro; eccolo, prendilo e levati dai piedi”. Poi continua illustrando ancora le motivazioni del suo comportamento. In sostanza dice tre cose: “Voglio dare a quest’ultimo quanto do a te”; “io amministro il mio denaro come voglio”; “il tuo occhio è cattivo, ossia tu sei invidioso, perché io sono buono”.

La lettura termina con una frase, apparentemente estranea a quanto precede: “Così gli ultimi saranno primi e i primi saranno ultimi” (20,16). Vedremo più avanti che non solo l’osservazione dell’evangelista non è fuori luogo, ma che racchiude in germe il senso della parabola. Come si accennava all’inizio, questa parabola è un’istruzione sul regno dei cieli, ossia sul modo di operare di Dio nella storia. Per una corretta comprensione, essa va collegata con i capitoli precedenti; specialmente con il finale del capitolo 19 (vv. 27-30). Pietro poneva a Gesù una domanda sulla ricompensa. “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa ne avremo?”. Gesù risponde che riceveranno il centuplo in questa vita ed erediteranno la vita eterna.

Gesù sa però che Pietro e gli altri, a proposito di ricompensa, partecipano della mentalità corrente, che si può riassumere nello slogan “quale il merito, tale la ricompensa”. Il racconto parabolico precisa che, in realtà, la cosa non è così automatica, come si pensava. Presso di Lui c’è gratuità assoluta. Nessuno può vantare crediti. Questa idea della ricompensa rende schiavi. La parabola vuole aiutare a liberarsi da questi schemi, per condurre alla libertà dell’amore. La parabola commenta anche il comportamento di Gesù verso i peccatori e i poveri, ben consapevoli di non poter vantare crediti davanti a Dio.

Essi sono quegli ultimi che diventeranno primi. D’altra parte, chi è ritenuto tra i primi, scribi, farisei, benpensanti di ogni risma e di ogni epoca, diverranno ultimi. Il regno di Dio prevede un capovolgimento di valori. Dio non si comporta secondo la logica degli uomini. Il profeta Isaia aveva già scritto: “Le vostre vie non sono le mie vie, dice il Signore” (Is 55,8). Vale a dire: il mio modo di pensare e di agire è molto diverso da quello delle culture correnti. L’evangelista Luca riferirà un canto della Vergine Maria: “Ha detronizzato i potenti e innalzato gli umili” (Lc 1,52). La parabola è dunque fondamentale per l’auto-comprensione del cristiano, che vive in tutto e per tutto attingendo alla gratuità di Dio. Solo così potrà mettersi completamente a Sua disposizione. Certamente gli è lecito sperare nella ricompensa, ma non può far valere le sue opere ritenute importanti. Questo è anche il nucleo della predicazione e degli scritti dell’apostolo Paolo di Tarso.

Nessun uomo potrà mai essere salvo in forza delle sue buone opere, ma solo per la misericordia di Dio, gratuitamente donata e accolta. “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge” (Rm 3,28). Mi par di udire in sottofondo l’obiezione di molti devoti parrocchiani che, spaventati, si domandano: ma allora tutte le buone opere che facciamo non valgono nulla? Gli risponde il profeta Isaia: “Come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia” (Is 64,5).

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi