La prima professione di fede della Chiesa

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia XXI Domenica del tempo ordinario - anno A

Ho visto in questi giorni, nella vetrina di un negozio di ricordi, una maglietta con su stampata l’immagine di Cristo che punta il dito verso un potenziale osservatore e porta scritta una domanda provocatoria: “Tu non sai chi sono io!”. Mi è sembrato di vedervi l’interrogativo con cui si apre il vangelo di oggi. Tanti cristiani non sanno con precisione chi è quel Gesù nel quale dicono di credere. Sui mezzi di comunicazione di massa ne sentono di tutti i colori e bevono le più strampalate opinioni come ultime novità, magari scoperte recentemente su libri esoterici conosciuti da secoli. Sembra che molti cristiani siano impegnati a confezionarsi una religione su misura, minestroni di facile digeribilità, che giustificano ogni comportamento. È facile crearsi una religione personale, che però non è più quella di Gesù, ma la nostra. Da qui la necessità di porsi la domanda scritta su quella maglietta. La risposta ci aiuterebbe a verificare l’autenticità della nostra fede cristiana.

Il vangelo di oggi si apre con una specie di inchiesta che Gesù fa proprio per verificare quali opinioni circolino su di lui: “che dice la gente di me?”. Sappiamo dalle risposte dei discepoli intervistatori che già allora c’erano le più diverse convinzioni, anche se racchiuse nell’ambito dell’esperienza religiosa formatasi sulla Bibbia. La conclusione era riassunta dalla figura di un profeta al quale tutte le opinioni facevano riferimento. La stessa inchiesta, fatta oggi, rileverebbe figure di riferimento della cultura laicista dominante. Non meraviglia, perché molti, che pur si dicono cristiani, conoscono la Bibbia solo per sentito dire e hanno letto o ascoltato distrattamente qualche pagine del Vangelo, magari capita male. Così l’inchiesta di Gesù oggi è diretta proprio a noi: “Voi chi dite che io sia?”. Richiede una verifica seria che magari ci faccia costatare: “Credevo di credere!”. Siamo a Cesarea di Filippo, la capitale del regno di Erode Filippo, il più settentrionale dei regni ereditati dai figli di Erode il Grande. La città era in pieno territorio pagano, dove Gesù non era conosciuto e quindi non attirava la curiosità della gente di Galilea.

È venuto fin quassù per trovare un momento di pace nel frenetico impegno di predicazione e di miracoli. Intende stare da solo con i discepoli per istruirli e consentire loro di interiorizzare le esperienze fatte finora in maniera troppo tumultuosa. È l’ambiente ideale per un ritiro spirituale di maturazione. I discepoli portano con loro le convinzioni incerte della gente, ma la loro vicinanza di vita con Gesù li ha resi più consapevoli e convinti. Ora è il momento di esprimere questa convinzione più chiara. Gesù per loro non è solo un profeta è il “Messia” ( Il Cristo) atteso da Israele per tanti secoli. I tre primi evangelisti esprimono questa certezza in tre modi: Marco mette sulla bocca di Pietro la formulazione più semplice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29); Luca aggiunge un ulteriore dettaglio: “Il Cristo di Dio” (Lc 9,20), cioè l’inviato di Dio annunciato e confermato; Matteo ci fornisce la formula più completa: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.

Ci si è domandati quali siano state le autentiche parole di Pietro. Forse in quella occasione egli formulò la sua professione di fede con le parole semplici e nude riferite da Marco, suo discepolo e interprete. Questo è un problema di secondaria importanza, perché i vangeli non sono una nuda cronaca degli eventi accaduti, ma la riflessione matura della Chiesa dopo Pasqua, quando Gesù aveva aperto la mente dei discepoli a comprendere pienamente il suo insegnamento (Lc 24,45) e dopo Pentecoste, quando lo Spirito santo aveva guidato gli stessi discepoli “alla verità tutta intera” (Gv 16,12). La Chiesa di Gerusalemme, per la quale Matteo scriveva, a più di trenta anni dalla Pasqua di Gesù, professava questa fede ormai matura.

L’evangelista aveva allora composto un montaggio letterario, unendo all’episodio di Cesarea un altro racconto che conteneva l’elogio per la fede di Pietro, divenuta ormai la fede della Chiesa. Il primo episodio è ambientato a Cesarea e si svolse secondo il racconto di Marco e di Luca, che non riferiscono però l’elogio e la promessa fatta a Pietro; il secondo episodio avvenne in altra circostanza a noi sconosciuta. Forse non andremmo lontano, se lo collocassimo dopo Pasqua, qualche tempo prima del conferimento del primato allo stesso Pietro con l’immagine del pastore chiamato a pascere gli agnelli e le pecore di Cristo (Gv 21,15-17). Pietro aveva acquisito una fede più matura dopo le apparizioni di Cristo risorto. Gesù era comparso per primo proprio a lui (Lc 24,34; 1 Cor 15,5) ed egli aveva potuto completare la prima professione fatta a Cesarea di Filippo, con l’aggiunta che Gesù non era solo il Messia atteso da Israele, ma “il Figlio del Dio vivente”.

Tommaso davanti al risorto aveva confessato: “Signore mio e Dio mio!” (Gv 20,28). Pietro deve aver detto parole simili davanti al suo Signore tornato in vita, come aveva promesso. Lo riconosceva vivo perché “Figlio del Dio vivente”, sul quale la morte non ha potere. Del resto sul Tabor, pochi giorni prima, aveva ascoltato la rivelazione del Padre che, dalla nube, aveva detto: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo” (Mt 17,5). Durante l’ultima cena, rispondendo a Filippo, Gesù aveva squarciato il mistero della sua personalità divina con parole chiare: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre…non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?… Il Padre che è in me compie le sue opere” (Gv 14,9s).

La mattina di Pasqua era venuta Maria di Magdala a riferire le parole del risorto: “Vai dai miei fratelli e di’ loro: io salgo al Padre mio e padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Simon Pietro, figlio di Giovanni, ormai era certo: Gesù era il Figlio del Dio vivente, disceso in terra per salvare gli uomini dal peccato e dalla morte. Ora Gesù poteva spiegargli perché gli aveva cambiato nome il giorno in cui lo vide la prima volta. Allora, guardandolo negli occhi curiosi, gli aveva detto: “Tu sei Simone, il Figlio di Giovanni, ti chiamerai Kepha (che vuol dire Pietro)” (Gv 1,42). Adesso gli chiariva: “Tu sei Petro, perché su questa pietra io edificherò la mia Chiesa”. Gesù intendeva dire innanzi tutto che sulla fede di Pietro, espressa sotto l’ispirazione del Padre che è nei cieli, fondava la fede di tutta la chiesa nel presente e nel futuro. Ogni pietra viva, edificata sulla roccia di Pietro, deve confessare la fede che questi confessò. Siamo figli di quella fede, la fede apostolica. Non possiamo modificarla né ignorarla.

AUTORE: Oscar Battaglia