La domenica delle Palme dell’anno A segue la passione di Cristo secondo Matteo che presenta, tra le varie, la caratteristica di porre in risalto l’adempimento delle Scritture. Il cielo che si oscura in pieno giorno richiama la scena già descritta da Amos, l’aceto che viene dato a Gesù è già stato anticipato dal Salmo 69, così come il Salmo 22 fa da sfondo agli episodi del supplizio patito da Gesù.
Anche alcuni fatti sono tipici di Matteo, come il suicidio di Giuda, il sogno della moglie di Pilato, il ‘lavarsi le mani’ di Pilato e la presenza di alcune donne che da lontano assistono alla crocifissione, con specificati i loro nomi.
Cinque sono i ‘discorsi’ che compongono il Vangelo di Matteo e cinque sono le tappe della Passione: l’istituzione dell’eucaristia, il Getsemani, l’arresto e la condanna, il martirio fisico, la morte e la sepoltura.
Qui approfondiremo un aspetto: il Getsemani, luogo dove i mistici collocano il momento più alto della Passione perché lì Gesù “già vede con terribile chiarezza tutti i tormenti che gli riservano le ore della sua passione” (Beata Speranza), luogo da dove Pascal si sente dire da Gesù: “Quelle gocce di sangue le ho versate per te”.
Il Getsemani (‘frantoio per l’olio’) è un podere situato nella valle del Cedron, ai piedi del monte degli Ulivi, usato dai pellegrini che si dirigevano a Gerusalemme per sostare di notte. Qui vi si concentra l’umana debolezza di Gesù, il massimo dello strazio interiore. Gesù vuole con sé i tre apostoli degli eventi più significativi, Pietro, Giacomo e Giovanni, e comincia a “rattristarsi e angosciarsi”. Poi si reca un poco avanti rispetto ai tre e si getta con il volto a terra e prega: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Non però come voglio io, ma come vuoi tu”.
Dei Vangeli sinottici, Matteo è quello che, nella totalità della sua opera, parla di meno dell’attività orante di Gesù, ma qui nel Getsemani evidenzia tutta la profondità e qualità del suo pregare. E lo fa distinguendo i vari aspetti che ne delineano il modello da imitare (26,30-44): Gesù prega con i Salmi insieme ai Dodici, con parole sue nell’intimità con il Padre, con la prostrazione del corpo, con insistenza, in atteggiamento di richiesta e abbandono fiducioso, vegliando e invitando a vegliare.
Ma la preghiera è soprattutto una lotta! Gesù è nella solitudine più totale perché neppure i suoi riescono a “vegliare con lui per un’ora”.
Amarezza, solitudine e un ‘calice’ da bere. Per il giudaismo biblico il calice preludeva alla peggiore delle sventure perché conteneva l’ira di Dio che veniva fatta bere ‘fino alla feccia’ ai Suoi nemici, che venivano così condannati irrimediabilmente alla morte. Gesù, Figlio di Dio, innocente, deve bere questo calice dei condannati. E allora subentra la lotta spirituale: accettare o no questo calice? Lo stesso termine greco usato nel Padre nostro (peirasmos) viene qui riproposto, e può voler dire sia ‘tentazione’ che ‘prova’. La prova qui si chiama dolore.
Gesù per ben 3 volte chiede: “Se possibile, passi da me questo calice senza che lo beva”. Si ripropone il complesso dialogo in cui Giobbe chiede a Dio perché si stia nascondendo (13,24), interrogativo che è stato definito da san Girolamo “un’anguilla” perché, quando pensi di averlo afferrato, in realtà ti scivola via.
Il tema della sofferenza è sempre complicato! Alla fine del libro, tuttavia, Giobbe dimostra di superare la prova e arriva al più alto dei livelli, che è quello della “contemplazione del Signore” (42,5). Il dramma della sofferenza, Gesù l’ha vissuto in pieno e fino alla fine, perché la Passione secondo Matteo (e per Marco, non così per Luca e Giovanni) mette in evidenza come le ultime parole di Gesù prima di morire esprimano proprio la durezza dell’abbandono anche da parte del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Alcune eresie dei primi secoli d.C. insistevano tanto sulla natura divina di Gesù da ritenere che il martirio della Passione quasi non lo riguardasse. Ma Gesù, come afferma la Lettera agli Ebrei, “è stato in tutto a nostra somiglianza, eccetto il peccato” (4,15), quindi la violenza morale e fisica l’ha vissuta interamente.
Come è stato per Giobbe, e poi per Gesù, anche a noi può capitare di ‘lottare’, ma ci è dato l’esempio che questi combattimenti preludono a una vittoria al di sopra di qualsiasi logica.
Inchiniamoci dunque, almeno con il desiderio, alla nuda roccia che sta nel presbiterio della chiesa del Getsemani a Gerusalemme. Vegliamo con il Signore nel luogo dell’‘abbandono’ e sentiamoci dire: “Qui Gesù ha sperimentato l’ultima solitudine, tutta la tribolazione dell’essere uomo. Qui l’abisso del peccato e di tutto il male gli è penetrato nel più profondo dell’anima. Qui è stato toccato dallo sconvolgimento della morte imminente. Qui il traditore lo ha baciato. Qui tutti i discepoli lo hanno lasciato. Qui egli ha lottato anche per me” (Papa Benedetto).
Giuseppina Bruscolotti