Il governo Monti si configura come governo “tecnico”. Sta facendo scelte importanti, che stanno passando indenni sul filo dell’emergenza, ma sono destinate ad avere incidenza duratura. Scelte impopolari, che i partiti hanno volentieri affidato a un governo “neutro” (?) non obbligato a misurarsi con previsioni elettorali. Si sa: le scelte “severe”, anche quando sono indispensabili, fanno perdere voti. Ma tutto questo non pone forse un interrogativo sul senso e la tenuta della democrazia? Non voglio dire – come da qualche parte si è detto – che la scelta di questa formula di governo sia anti-democratica. Le cose sono state fatte, soprattutto per merito del Presidente della Repubblica, con senso di responsabilità, in vista del bene comune, secondo le regole. Ma fa pensare il vicolo cieco in cui si è cacciata la democrazia dei partiti, con la sua incapacità di esprimere una cultura politica condivisa, al di là di schieramenti e programmi: condivisa tra gli “addetti ai lavori” e soprattutto condivisa con la gente. La politica è di sua natura una visione generale del bene comune. Implica un sentimento fondamentale di unità e un minimo di valori condivisi. Obbliga a stare, pur tra legittime diversità, su una base comune. La Costituzione assicura questo. Ma quanto resta, nell’opinione pubblica e nel sentimento generale, di questa convergenza indispensabile e vitale? A voler andare alla radice, occorre risalire ben oltre la crisi della politica. La crisi è più profonda. È antropologica: investe, cioè, il senso stesso dell’uomo. Sono i valori fondamentali a cedere nella testa e nell’animo della gente. Siamo così costretti ad affrontare una crisi economica che ci sta mettendo in ginocchio, e che dunque esigerebbe il massimo della solidarietà, con i “cocci” sparsi di una visione del mondo in cui sono saltati – anche sul piano legislativo – il valore intangibile di ogni vita umana e il nucleo stesso della società, la famiglia. Tolti, o quanto meno indeboliti, questi due cardini, ci troviamo esposti alle turbolenze del processo di globalizzazione con una situazione sociale sfilacciata e atomizzata. Il rapporto tra società civile e istituzioni pubbliche, che avrebbe bisogno di essere ridisegnato secondo principi di solidarietà e sussidiarietà, per dare forza congiuntamente all’iniziativa sociale e all’autorità statuale, viene a trovarsi in uno stato di grande labilità. Quando mi capita di stare accanto ad operai impegnati nella salvaguardia del loro posto di lavoro – penso, per il territorio della mia diocesi, al caso Merloni, alla Faber, a tante altre aziende – percepisco, nell’animo dei lavoratori, un sussulto di dignità e di solidarietà. Si chiede allo Stato di fare qualcosa. E come non rivendicarlo? Ma si constata quanto poco lo Stato riesca a fare, in una situazione in cui le scelte che creano o tolgono lavoro si fanno su una scacchiera che va ben oltre gli Stati. C’è un problema di governance mondiale. Occorre rilanciare una Carta dei diritti umani e del lavoro che sia universalmente riconosciuta e rispettata. Resta soprattutto, sullo sfondo della politica nazionale e sovra-nazionale, l’urgenza di un recupero valoriale, che restituisca un’anima alla politica e, prima ancora, un orizzonte etico in cui ricollocare con forza la nostra vita personale e sociale. Quando, alcuni giorni fa, alla presentazione in Assisi del libro di Luca Diotallevi L’ultima chance, si è discusso delle prospettive di una rinnovata generazione di cattolici in politica, i discorsi hanno toccato – era inevitabile – questo orizzonte. È l’ora, almeno per chi ha la grazia di “credere”, di non rintanarsi. La fede spinge in campo aperto, anche quello della politica. È urgente rimettere mano alle fondamenta. Oltre un secolo fa, venne a ricordarcelo in Umbria, nella Settimana sociale di Assisi (1911), Giuseppe Toniolo, leader dell’impegno sociale cattolico: un economista alle soglie della beatificazione (prossimo 29 aprile). Anche per la politica è l’ora dei “santi”.
La politica cerca un’anima
AUTORE:
Domenico Sorrentino