Luca evita di parlare di “trasfigurazione” (in greco metamorphosis) forse perché nell’ambiente greco per il quale egli scrive la parola sapeva troppo di paganesimo. La mitologia pagana parlava di continue metamorfosi di dèi nei loro interventi poco edificanti nella storia accanto agli uomini. L’evangelista preferisce attirare tutta l’attenzione del lettore sul volto nascosto del Figlio di Dio, che qui si rivela in tutto il suo splendore fino a rendere trasparente la sua pelle e cambiarla in luce. È la luce di Dio che splende nel volto di Cristo (2 Cor 4,6).
Il racconto dunque descrive una ‘epifania’, cioè la manifestazione divina del Figlio di Dio. Un fatto centrale del Vangelo, posto tra la manifestazione del Padre al Giordano (3,21-22) e le apparizioni del Risorto il giorno di Pasqua (24,31.36). Nel contesto del Vangelo di Luca, l’episodio sembra la risposta del cielo alla domanda che Gesù aveva posta ai discepoli poco prima quando, come nel nostro caso, “Gesù si era trovato in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui” (Lc 9,18): “Voi chi dite che io sia?”. Anche allora Pietro era intervenuto, anticipando tutti, e aveva però risposto in maniera incompleta: “Tu sei il Cristo di Dio” (9,20).
Non era ancora consapevole della portata delle sue parole. L’episodio è legato anche al discorso di Gesù sulla sua futura passione, morte e risurrezione, che troverà puntuale riscontro nella conversazione di Cristo con i profeti apparsi accanto a lui nella gloria. L’evangelista mostra Gesù che, con tre discepoli spettatori privilegiati di altri importanti eventi, “sale sul monte a pregare”. Si appartava ogni tanto in preghiera solitaria notturna sui monti, come a cercare un contatto di maggiore vicinanza con il cielo (6,12). Proprio durante la preghiera il suo volto e le sue vesti diventano luce sfolgorante e assumono il colore bianco del mondo divino, come lo concepivano i suoi contemporanei. Anticipa così la sua condizione di risorto, la sua gloria divina di Figlio.
Per Luca la preghiera ha effetto trasfigurante, perché mette in comunione diretta con il Dio della luce e immerge nel suo mistero. Qui l’uomo è come una spugna che, immersa nell’acqua ne viene totalmente imbevuta: lo Spirito di Dio lo compenetra e se ne impossessa. Appare anche chiaro che la preghiera genera la compagnia dei santi, perché accanto a Gesù che prega compaiono Mosè ed Elia, gli uomini più santi di Israele, rappresentanti della rivelazione divina contenuta nel libro della Legge e in quelli dei Profeti. Ambedue erano stati abitatori del monte Sinai, dove erano saliti per trovare Dio ed erano stati da lui visitati. Mosè addirittura aveva riportato da quegli incontri faccia a faccia con Dio la luminosità straordinaria della sua pelle, che fu poi costretto a velare (Es 34,29-34). Erano considerati ambedue profeti escatologici. Erano scomparsi in maniera misteriosa di là del Giordano e si attendeva il loro ritorno alla fine dei tempi, per annunciare la venuta imminente del Messia. Sul Tabor rappresentano le Scritture che preannunciano e ricordano a Cristo il suo destino di sofferenza (Lc 24,27).
E sarà proprio questo l’argomento della conversazione che i tre apostoli riuscirono a percepire, pur tra la nebbia del sonno che li aveva sopraffatti. Riuscirono solo a capire che i due interlocutori parlavano con Gesù “della sua prossima partenza che stava per compiersi a Gerusalemme”. Luca sottolinea che Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno, ma cercavano con grande sforzo di rimanere svegli, incuriositi da ciò che strava accadendo. Non era una scena di tutti giorni e sarebbe stato un peccato farsela sfuggire. Comunque il loro sonno era il segno della confusione che regnava dentro di loro in quel momento. Il fenomeno si ripeterà al Getzemani, dove, tra qualche giorno, tutti e tre si ritroveranno di nuovo insonnoliti, incapaci di capire in tutta la sua portata il mistero di dolore che Gesù viveva in quel momento (22,45-46). Quegli occhi che ora tendono a chiudersi nel sonno, come ad evadere da una realtà più grande di loro (24,15), Gesù li aprirà loro totalmente con la sue apparizioni di risorto (24, 31.45).
La fede che nasce dall’ascolto della parola di Dio apre i nostri occhi addormentati dalla stanchezza e dall’invecchiamento spirituali, dall’abitudine delle pratiche religiose devozionali, dal logorio continuo della vita senza entusiasmo. Abbiamo bisogno della scossa del Risorto e della luce sfolgorante del Tabor, per restare svegli. Quando Mosè ed Elia stanno per congedarsi, Pietro interviene a gamba tesa per fermare l’azione e prolungare la scena così emozionante: “Maestro, che bello per noi stare qui! Facciamo tre tende”. L’apostolo vuole ricreare il clima di festa e di gioia spensierata che aveva vissuto tante volte nella festa delle Capanne, quando passava le notti luminose sotto tende o capanne improvvisate. Non sa ancora che gli attimi di estasi e di eternità non si possono fissare, che non si può prolungare quanto si vuole l’esperienza del divino. Non è ammessa nessuna evasione dalla dura realtà quotidiana. Non si possono creare a comando paradisi artificiali qui sulla terra.
Mentre Pietro faceva questa proposta, che lui stesso giudicherà senza senso, una nube improvvisa calò sul monte; era la nube dove Dio abita e dove si manifesta agli uomini pellegrini. Dio è un mistero di luce e di buio, accecante come il sole e inafferrabile e impenetrabile come la nebbia. Così si era presentato a Mosè sul Sinai (Es 24,15-18), così si presenta ora ai tre discepoli, che si trovano avvolti nella nube scura. Della scena luminosa iniziale resta solo la parola del Padre da ascoltare. Dopo la visione, l’ascolto: “Questi è il Figlio mio , l’eletto: ascoltatelo”. Cessata la voce, i tre si ritrovano accanto Gesù solo, nelle vesti di sempre. L’evento uditivo resta al centro della scena del Tabor; la fede nasce dall’ascolto (Rom 10,17).
Il credente è colui che dà la preferenza alla parola di Dio su ogni tipo di visione. Il cristianesimo non è la religione dei visionari, ma dei predicatori e degli ascoltatori (Mc 16,15-16). A loro è diretta l’ultima beatitudine di Gesù (Gv 20,29). La Trasfigurazione non rivela solo il vero volto di Cristo, ma anche il vero volto del cristiano, quello nascosto dalla normalità quotidiana: il volto di figlio amato di Dio. Contemplare il volto di Cristo vuol dire scoprire i lineamenti del proprio volto di credente come in uno specchio. È molto di più ciò che nascondiamo che ciò che mostriamo. Giovanni ci avverte: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli (Gesù) si rivelerà, noi ci scopriremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (Gv 3,2).