La nonna di Barack Obama

Editoriale

Nel discorso di Barack Obama, il primo da presidente eletto, si possono trovare gli elementi che spiegano la sua vittoria, ottenuta con una maggioranza plebiscitaria. Si stenta a capire perché un Paese così potente, complesso, ricco, che si trova in un momento di crisi che coinvolge l’intero pianeta, non abbia scelto il veterano eroe del Vietnam esperto e coraggioso e quindi affidabile per la sicurezza e l’esito favorevole delle missioni in Paesi in cui è sfidato e minacciato da forze militari antagoniste, quali l’Iraq e l’Afganistan, ed abbia preferito un uomo nato nel 1961, di appena 47 anni, senza grandi esperienze politiche di rilievo, che ha fatto modeste esperienze di servizi sociali. Per di più un afro-americano, un meticcio con padre africano e madre americana, nato da uno di quei matrimoni che spesso non funzionano o funzionano male, come è successo in questo caso. La spiegazione sta nella macchina organizzativa del Partito democratico e nei massicci finanziamenti che le elezioni americane scandalosamente mettono in campo. Ma ciò non basta, perché era presente anche nel campo repubblicano. Non saremo noi, con queste poche pagine, a presumere di tirar fuori questi motivi. Possiamo tuttavia esprimere un parere positivo sulla persona e sul fascino che rappresenta con la comunicazione corporea, retorica e biografica. Questo giovane personaggio si è imposto per la freschezza, giovinezza, elasticità e disinvoltura della sua manifestazione. Per i suoi gesti e movimenti, per la capacità di parlare con tono suadente e coinvolgente, e soprattutto per i sentimenti di fiducia, speranza, ottimismo, simpatia e patriottismo che è riuscito a suscitare. Sentimenti anche più intimi e familiari come quelli per la nonna, visitata poco prima di morire, e che ha fatto per lui l’atto del voto come suggello della sua esistenza. Ha saputo raccontare la sua storia personale come un miracolo americano, offerto alla platea mondiale come un esempio e un segnale che tutto può succedere in America, anche che il nipote di un pastore di capre possa diventare presidente. A questo messaggio sono oltremodo sensibili le persone e le popolazioni che nel mondo si sentono emarginate, fuori dalla stanza dei poteri mondiali forti. Scene di festa nel villaggio di Kogelo, in Kenya, dove vivono ancora i parenti stretti di Obama: il Kenya e l’Africa e tante altre nazioni hanno festeggiato. Un gruppo di senegalesi, a Perugia per la Fiera dei morti, ha alzato il pollice in segno di vittoria. La storia della nonna, il riferimento alla donna più anziana che lo ha votato, Ann Nixon Cooper, nera di 106 anni, nata poco dopo l’abolizione della schiavitù, che ha potuto vedere come sono cambiate le cose, sono messaggi forti per un’America in crisi. La società vive e respira anche di sentimenti, oltre che di cifre. Obama si domanda: ‘Se le mie figlie dovessero vivere tanto a lungo quanto Ann Nixon Cooper, quale cambiamento vedranno? Quali progressi avremo fatto?’. E qui nasce l’invito all’unità della nazione e alla responsabilità, chiamando alla collaborazione, con stima, l’avversario politico Mc Cain. Ha concluso con Martin Luther King, il predicatore di Atlanta, ripetendo: We shall overcome, uno slogan e un canto internazionale e persino religioso: ‘Noi vinceremo’. È stato l’appello finale del nuovo presidente degli Stati Uniti.

AUTORE: Elio Bromuri