Erano sogni ad occhi aperti quelli che da adolescenti abbiamo fatto, noi segnati da una vocazione che non ci ha mai più abbandonato. Pensavamo e con serietà facevamo progetti di andare lontano, in villaggi sperduti a diffondere il Vangelo ed anche un poco d’igiene e di prevenzione sanitaria. Ci sembrava quasi una forma riduttiva doversi recare come parroci in qualche parrocchia dove la fede è ben consolidata e le tradizioni resistenti e un poco ammuffite. Poi la vita ci ha portato, preti e laici impegnati, ad operare in campi aperti di servizio caritativo e sociale, di coinvolgimento con persone concrete, famiglie, comunità, affrontando difficoltà, sofferenze e sentendoci anche utili ed apprezzati. Ma ci sembrava comunque di non aver raggiunto il prestigioso titolo di “missionario”. Qualcuno di noi infatti ad un certo punto è partito per Paesi lontani, e tuttora vi sono alcuni di questi coraggiosi che sono ammirati e in qualche modo anche invidiati per l’avventura che hanno compiuto o stanno ancora compiendo. Tutto ciò rimane in fondo all’anima di molti che, pur avanti con gli anni, non cessano di ripensare alle avventure di padre Damiano tra i lebbrosi, di Albert Schweitzer, o persino di Matteo Ricci, fra’ Giovanni da Pian di Carpine, o Francesco Saverio, o anche al nostro Francesco d’Assisi che va dal Sultano non per gioco, ma per convertirlo. Cavaliere crociato fallito si pone al servizio del “Padrone”, missionario del Vangelo, unica forma di vita per gli uomini, e chiede la conversione e l’adesione di tutti all’unico Signore. Connessa con questa ammirevole vocazione c’è quella alla vita perfetta e alla costituzione spirituale forte e ben radicata nella fede, dolce e intransigente. Tutto questo è vero ed è perenne, resiste allo scivolare dei tempi e delle mode, rappresenta una di quelle forme tipiche dello spirito umano, prima ancora che cristiano: anch’esso non sai di dove venga e dove vada. Ma è proprio qui che vorrei insinuare uno scricchiolio della ragione, dovendo prendere atto che la dimensione missionaria ha preso forme diverse e raggiunto molti per molteplici cause diverse. Avanza la pretesa di avere una presunta “mission”, assunta e reclamata con orgoglio, e può avere ragioni secolari o religiose, rispuntate, queste, a migliaia dalle ceneri dell’ateismo di Stato. Si ergono nelle relazioni personali e sociali muri e steccati tra mission e messaggi competitivi e alternativi. Da qui nasce il relativismo, che non è acquiescenza ma scontro, e confluisce nel dogmatismo. Il missionario cristiano non è percepito più come colui che porta la vera fede e la civiltà rispetto al paganesimo e alla barbarie. Per non cadere in tentazione deve non più sognare, ma ascoltare il frastuono dei messaggi che invadono l’areopago mediatico e riconvertirsi ogni volta al pensiero che tra le voci c’è una Voce, tra le parole c’è una Parola, e tra i maestri c’è il Logos, il Maestro, tra i “viventi che muoiono” c’è il Vivente che risorge da morte. E anche quando sia stata fatta una cernita di alcune tra le voci del frastuono che hanno senso di umanità e saggezza, scoprire e riscoprire che tanti possono essere i profeti, ma uno solo è il Figlio. Questo non è opinione o sogno, ma fede ragionevolmente fondata.
La missione è sempre nel cuore
editoriale
AUTORE:
Elio Bromuri