Siamo oltre la metà del pellegrinaggio quaresimale e la liturgia della Chiesa, interrompendo per un momento l’austerità di questo tempo, ci invita a “rallegrarci”. La liturgia della Chiesa attenua persino il colore dei paramenti liturgici, dal viola passa al “rosaceo”, per sottolineare questo stacco di letizia. Tale esortazione sembrerebbe non aver più senso da quando la Quaresima non è più avvertita nella sua severità e il digiuno è quasi totalmente disatteso. Ed in effetti, questi quaranta giorni scorrono per lo più come tutti gli altri, senza una particolare urgenza del richiamo della Chiesa a rallegrarsi. L’invito liturgico, se in passato comportava la sospensione dell’austerità, non voleva comunque spingere verso un senso di spensieratezza o di superficiale e ottimistico senso della vita.
Al contrario, la liturgia conoscendo bene le difficoltà e i problemi dei giorni degli uomini, è consapevole del bisogno che abbiamo di un annuncio di letizia vera. Ed ecco, nel mezzo del cammino quaresimale, l’esortazione a rallegrarsi; il motivo è l’avvicinarsi della Pasqua, ossia la vittoria del bene sul male, della vita sulla morte. Questo è il vero annuncio di gioia che la liturgia ci porta. Il bisogno di ritrovare una dimensione religiosa ed etica, che interrompa in qualche modo questo circolo vizioso e che dia senso alla vita, si fa sempre più urgente, e non solo per la salvezza dell’anima ma anche per quella della stessa società.
Il secondo libro delle Cronache (la prima lettura della liturgia) ci viene incontro e ci aiuta a leggere la situazione odierna. L’autore sacro lega la caduta di Gerusalemme e il susseguente periodo di schiavitù in Babilonia all’infedeltà del popolo ai comandi del Signore: “In quei giorni tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà… si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il suo culmine, senza più rimedio”. I nemici incendiarono il Tempio, demolirono le mura di Gerusalemme e gli scampati alla morte furono deportati. Con il tipico linguaggio veterotestamentario la Scrittura sottolinea lo stretto rapporto tra l’attutirsi della tensione morale dell’intero popolo (non solo di qualcuno additato al ludibrio comune e condannato quasi vittima espiatoria) con la conseguente degenerazione e fine della stessa convivenza civile. Per questo il tempo quaresimale torna opportuno ogni anno: ci aiuta a ritornare al Signore, a riprendere in mano le Scritture e a riflettere sul senso vero della vita, del proprio agire e del proprio operare.
Il Vangelo di Giovanni che viene annunciato questa domenica ci dice che la risposta alla domanda sul senso della vita è Gesù, morto e risorto. Anche Nicodemo si sentì rispondere in questo modo con il richiamo all’episodio del serpente innalzato da Mosé nel deserto che salvò la vita degli israeliti morsi dai serpenti velenosi: “Come Mosé innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbi la vita eterna”. Già il libro della Sapienza aveva intuito in quell’episodio un segno della salvezza e dell’amore di Dio quando aveva cantato il serpente di bronzo definendolo “un simbolo della salvezza per ricordare i decreti della legge divina: infatti, chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva ma solo da te, salvatore di tutti” (16, 6-7).
Quel serpente posto sull’asta diventa per Giovanni il segno della croce di Cristo “innalzata” in mezzo all’umanità. Gesù “innalzato”, nel linguaggio giovanneo, non è una immagine tesa a suscitare commiserazione o compassione. Quell’asta innalzata, quella croce piantata sul monte è la fonte della vita; una fonte generosa e senza limiti, gratuita e abbondante: “Dio ha tanto amato il mondo – continua l’evan gelista – da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”. Chiunque viene colpito dai morsi velenosi dei serpenti di oggi, basta che rivolga gli occhi verso quell’uomo “innalzato” e trova guarigione. Gesù stesso dirà più avanti proprio a Gerusalemme: “Quando sarò elevato da terra, attrarrò tutti a me” (Gv 12, 32).
La salvezza come anche il senso della vita, non viene da noi. Ci è donata dall’alto. La presenza del male è una realtà a tal punto persistente da indurre ad un ragionevole fatalismo pessimista. In effetti, con le sole nostre forze come potremmo sradicare il male e la sua più terribile conseguenza che è la morte? C’è da dire che il male nel mondo non è uno sfortunato destino che si abbatte sul mondo, contro cui è impossibile intervenire. Il male nasce dal principe del male e dai suoi servitori e tra essi anche noi, che continuiano a compiere opere malvage. L’evangelista Giovanni, nell’episodio di Nicodemo, ripete quasi alla lettera le parole scritte nel Prologo: “La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”(3 19).
C’è pertanto una responsabilità nell’allargare o nel perpetuare la presenza del male nel mondo che va compresa e quindi recisa. Agli uomini non è chiesto l’impossibile opera di un’auto liberazione dal male. E’ chiesto solo di alzare lo sguardo da se stessi e di guardare un po’ più in alto, di non restare nel buio dell’egocentrismo e accogliere quella luce che Dio ha inviato nel mondo, di non bloccarsi nell’amore per sé e accorgersi di quell’amore che dall’alto è sceso sulla terra. Anche l’apostolo Paolo, nella lettera agli Efesini, ci ricorda che: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatto sedere nei cieli” (2, 4). Come non “rallegrarsi” di queste parole? La liturgia di questa domenica, piena della letizia dell’amore di Dio, continua a guidarci verso l’avvenimento della salvezza del mondo, la morte e la risurrezione di Gesù. Lasciamoci condurre per mano.