La lezione del cieco nato

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini IV Domenica di Quaresima - anno A

Domenica scorsa abbiamo incontrato Gesù a colloquio con una donna della Samaria, alla quale si rivelò come “fonte di acqua viva”. In questa domenica lo incontriamo che guarisce un uomo nato cieco, rivelandosi “luce del mondo”; titolo messianico, che si ripeterà frequentemente nel Vangelo secondo Giovanni, a cominciare dal prologo: “Egli era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e la tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4). E poco più avanti aggiunge che solo pochi uomini l’accolsero, i più invece la rifiutarono. Il racconto del Vangelo che ascolteremo sviluppa drammaticamente questo motivo. È una vera catechesi pre-battesimale: coloro che saranno lavati nelle acque del battesimo, scopriranno che Cristo Signore è la luce della loro vita.

In questo racconto convergono molti temi catechetici: lo scontro fra la luce e le tenebre, la rinascita dall’acqua, la nuova creazione a partire da un impasto di fango, l’ostinazione a rimanere chiusi nei propri schemi nonostante l’evidenza contraria. La narrazione è condotta in modo magistrale, anche sul piano letterario. I personaggi vanno e vengono, compaiono, scompaiono e ricompaiono, discutono e dubitano, interrogano e convocano testimoni, si arrabbiano, insultano e condannano. L’unico sempre presente è un cieco mendicante, che per opera di Gesù diviene vedente e poi credente; tutti gli altri gli ruotano attorno. I primi a incontrarlo sono Gesù, di passaggio con i discepoli, che domandano spiegazioni circa la sua cecità: “Di chi è la colpa di questa disgrazia?”. Gesù risponde che non è colpa di nessuno, ma è così “perché si manifestino in lui le opere di Dio… Io sono la luce del mondo” (9,3-4).

Poi il cieco si accorge che qualcuno gli sta imbrattando gli occhi ciechi di fango e gli dice: “Vai a lavarti nella piscina di Siloe” (v. 7). Lui va e, quando torna, non è più cieco. Nel frattempo Gesù e discepoli sono scomparsi dalla scena; ma compare la gente, che si domanda: “È lui o non è lui?”. Chi dice sì e chi risponde no. L’ex cieco assicura: “Sono proprio io”. La gente gli domanda: com’è successo? Lui racconta quello che gli ha fatto un certo Gesù; lui è andato a lavarsi a Siloe, come gli era stato comandato, e adesso ci vede. Per capirne qualcosa di più, la gente, stupita, lo conduce dagli esperti, i farisei, i quali lo interrogano puntualmente. Lui racconta di nuovo. Loro decidono che non solo è un peccatore lui, giacché è nato cieco; ma anche lo è anche chi lo aveva guarito: di sabato, infatti, è proibito “impastare”, come prescrivono le loro leggi tradizionali. I farisei, tuttavia, qualche dubbio è rimane, allora chiedono anche il parere del guarito, che risponde: “È un profeta” (9,17).

Non gli credono: costui non può essere nato cieco, pensarono, ci deve essere un trucco. Allora mandano a chiamare i genitori, i quali a domanda rispondono che effettivamente quello è figlio loro e che è nato cieco, ma per il resto non sanno altro. Allora gli esperti della legge di Mosè, ancora per nulla convinti, chiamano di nuovo il cieco, ora vedente, e gli ripetono le stesse domande. Lui alza la voce e risponde che è stufo di ripetere le stesse cose; e si permette anche di offenderli: “Volete forse anche voi diventare suoi discepoli?” (9,27). E spiega loro che, se Gesù fosse un peccatore, Dio non lo avrebbe ascoltato. È il colmo: peccatore com’è, da capo a piedi, vuole fare anche da maestro a loro. E lo cacciano fuori. Ora il racconto va verso l’epilogo. Ricompare Gesù, che incontra il nuovo vedente e gli domanda: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. E lui: “Chi è, Signore?”. Gesù: “È colui che parla con te” (9,37). Risposta: “Credo, Signore”. E gli si prostra dinanzi.

Il racconto non termina con il riconoscimento del Messia da parte del nuovo vedente, come sembrerebbe ovvio. Gesù, infatti, prende di nuovo la parola e illustra, con tagliente chiarezza, il senso dell’accaduto: “Sono venuto in questo mondo per operare un giudizio: perché quelli che non vedono, vedano, e quelli che vedono diventino ciechi” (9,39). Alcuni farisei presenti capirono, si risentirono e chiesero spiegazione. La risposta fu ancora più dura: “Se foste ciechi, non avreste colpa, ma siccome dite di vederci, il vostro peccato rimane” (9,41).

Il racconto era cominciato con una domanda sulla colpa. Alla fine la questione è ripresa: effettivamente non è colpa essere nati ciechi, ma lo è pretendere di vederci, mentre si è ciechi. Fuori di metafora: i farisei, che pure conoscono le Scritture sante, hanno la pretesa discernere l’opera di Dio. In realtà sono talmente chiusi nei loro schemi pregiudiziali da negare perfino l’evidenza. Qui Gesù mette in luce un fenomeno fondamentale del comportamento umano: l’uomo chiuso in se stesso, che cerca se stesso, si nega all’esigenza di Dio ed è disposto anche a negare l’evidenza. Chi non conosce il proverbio italiano: “Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere?”.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi