Il vecchio Simeone, ricevendo tra le braccia il bambino Gesù offerto al tempio da Maria e Giuseppe, aveva fatto una profezia: “Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34s). Aveva ragioni da vendere, perché Gesù fu sempre al centro di contrasti e di contestazioni spesso drammatici. Nonostante lo spettacolare miracolo della moltiplicazione dei pani sulle rive del lago di Galilea, la folla che ne aveva beneficato rimase piuttosto fredda e critica nei suoi confronti. Quel miracolo li aveva sconvolti, ma non convertiti. Alcuni, per credere in lui, esigevano un segno dal cielo ancora più spettacolare di quello visto, altri contestavano ad alta voce le sue parole e le sue pretese di Messia.
La strada della fede non è facile; anche le certezze più solide possono essere rimesse in discussione. Il cuore dell’uomo è incostante; i ragionamenti troppo umani e le difficoltà della vita possono fiaccare anche le forti tempre. La prima lettura di oggi ci racconta che ciò è accaduto al profeta Elia, che pure era una robusta quercia di fede. Scoraggiato e stanco di vivere, Elia era fuggito nel deserto, deciso a lasciarsi morire. Solo un angelo riuscì a smontare la sua volontà suicida con il pane portatogli miracolosamente dal cielo. Quel cibo venuto da Dio lo aiutò a sopravvivere e lo mise in cammino verso il monte di Dio, l’Oreb, alla sorgenti della sua fede. Così recuperò certezze e coraggio. Quelle focacce angeliche, cotte alla maniera beduina sulle pietre infuocate dal forte sole del deserto, erano segno del pane venuto dal cielo, quello che Gesù oggi propone alle folle dubbiose e contestatarie. Proprio sulle strade del Sinai l’Israele antico aveva mormorato molte volte contro Mosè e contro Dio, anche quando stava per ricevere il dono della manna, il pane venuto dal cielo (Es 16,2.7s).
Questo nonostante avesse visto i numerosi prodigi operati da Dio fino ad allora. A Cafàrnao si ripete il copione: quella gente, che ha ricevuto poco prima il miracolo del pane, mormora contro Gesù perché ha detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. Non chiedono nemmeno spiegazione di questa strana autodefinizione, semplicemente la contestano come assurda. Molti hanno conosciuto Giuseppe e Maria, i suoi genitori di Nazareth, e fa loro velo la sua origine umana da una famiglia così modesta e povera di un piccolo villaggio ad appena venticinque chilometri da Cafarnao. Proprio per rispondere a quella contestazione, ripetuta più volte nella storia, e nascosta nel cuore anche di alcuni cristiani che pure si dicono credenti, il Credo che recitiamo nella messa ci fa dire: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, per opera dello Spirito santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo”.
L’incarnazione è il mistero base della fede che ogni credente è chiamato a professare. Chi non accetta Gesù come vero Dio e vero uomo, non è cristiano, tuttalpiù è come i testimoni di Geova che negano la divinità di Cristo. Gesù pone questa verità alla base del suo discorso sull’eucaristia, dove propone di mangiare la sua carne e bere il suo sangue; proprio quella carne e quel sangue che, scendendo dal cielo, ha assunto da Maria. Non c’è eucaristia senza l’incarnazione. Questa verità è la cartina di tornasole della nostra fede. Proprio dell’origine della fede parla Gesù, che si è appena scontrato con l’incredulità dei suoi ascoltatori nella sinagoga di Cafarnao. Egli dice che la fede è una specie di innamoramento, un’attrazione divina. Chi si innamora non lo fa mediante un ragionamento più o meno convincente. Il cuore ha le sue ragioni che non sono quelle della mente. L’amore è gratuito, non si compra, te lo ritrovi dentro come un dono immeritato. Così la fede; è un’attrazione amorosa di Dio: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre”.
Lo stesso Gesù dirà più tardi, alludendo alla sua morte in croce: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Questa attrazione divina è opera del Padre e del Figlio. Essa però ha bisogno di conoscenza. Non ci si innamora di una persona mai vista e conosciuta. La fede suppone almeno l’ascolto della Parola di Dio nel Vangelo; esso dona la prima conoscenza di Gesù e lo rende attraente. L’amore esige una conoscenza sempre più personale e profonda dell’amato. Si progredisce nella fede, che è amore, alla scuola della Parola, perciò Gesù può dire: “Tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me”.
Nella fede nessuno è maestro, siamo tutti discepoli, cioè alunni di Dio, che ci istruisce amorevolmente e pazientemente. Così Dio entra in noi e ci cambia in figli amati, donandoci la vita eterna. La vita eterna non è la semplice sopravvivenza o l’immortalità: è la vita divina, che non è di questo mondo, e ci fa vivere già nella dimensione del cielo. Giovanni la descriveva così: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3,2). Su questa terra ci manca lo specchio per vedere come siamo fatti.
Dobbiamo aspettare il cielo. Solo con la fede fin qui descritta si può accettare la definizione che Gesù dà di se stesso: “Io sono il pane della vita”. Vuole dire che lui solo fornisce il nutrimento spirituale, quello che dona e conserva la vita eterna. La manna non cambiò la vita degli ebrei in cammino nel deserto, essi morirono come era scritto nella loro natura di uomini. Chi mangia il nuovo pane disceso dal cielo non muore, perché esso ha la capacità di trasmettere la vita divina indistruttibile. Certo, la vita fisica finisce, ma la vita divina dura per l’eternità, e alla fine trasformerà anche il nostro corpo mortale in corpo glorioso ad immagine di quello di Gesù risorto (Fil 3,21). Il vangelo di oggi pone a tutti noi un interrogativo: crediamo veramente alle parole di Cristo? Perché, se crediamo alle cose udite, la nostra vita cambia. Gesù diventa il centro dei nostri pensieri e delle nostre azioni, come il pane quotidiano che mangiamo e per il quale lavoriamo e lottiamo.