“Pieno compimento della legge è l’amore”, scrive Paolo ai romani. È un’affermazione che va ben aldilà della logica legalista che i farisei avevano imposto alla gente. L’apostolo invita ad allontanarsi da un atteggiamento moralistico rigido e angusto per assumere prospettive più larghe e più gioiose, le quali tuttavia implicano un impegno: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole”. C’è un debito che i cristiani hanno. Ed è l’unico: l’amore vicendevole.
A noi, liberati da ogni altro legame, resta quest’obbligo vincolante. Si potrebbe dire, in altre parole, che c’è un diritto del prossimo verso ognuno di noi, quello appunto all’amore, il diritto ad essere voluti bene. Questa decisa affermazione di Paolo si scontra con la nostra pervicace mentalità egoistica. La liturgia di questa domenica richiama la nostra attenzione a questo debito verso il prossimo, anche perché talora ci contentiamo di pensare che non abbiamo sentimenti di forte ostilità verso gli altri. Nella nostra società per un verso sembra crescere il senso del rispetto verso l’altro, ma dall’altro crescono anche distanza, indifferenza e violenza.
Certo, esistono modi spiacevoli di interessarsi agli altri, quelli della critica fatta alle spalle, della maldicenza, della malevolenza, e così via. Tanto che il rispetto è a volte una conquista. Ma il Vangelo dice che non basta questo rispetto, perché esiste il diritto dell’altro al nostro amore. Quest’affermazione, tra le più chiare del Vangelo, incrina decisamente le nostre prospettive solitarie e i nostri destini paralleli. Il Vangelo ci ricorda le parole di Gesù sulla correzione e sul perdono fraterno. Esse sono esattamente sulla stessa linea dell’amore per il prossimo. C’è, infatti, un modo di non dire le cose che non è rispetto, è anzi indifferenza; e un altro un modo di dirle che è invece sincero interesse e doverosa responsabilità verso gli altri.
Ogni credente ha il dovere di correggere il proprio fratello quando sbaglia, come anche ognuno ha il diritto ad essere perdonato. Purtroppo viviamo in una società che non conosce più il perdono, appunto perché non conosce il debito dell’amore. La parola di Dio ci interroga profondamente. In un mondo sempre più interdipendente ma insieme concorrenziale occorre imparare che per essere veramente liberi e per costruire una società davvero civile, dobbiamo farci nuovamente schiavi dell’amore l’uno per l’altro. L’utopia del rispetto integrale dei diritti di ciascun uomo e di ciascuna donna passa per l’assunzione da parte di tutti di un unico imprescindibile dovere: rispettare il diritto dell’altro ad essere amato.
Questo diritto si intreccia con la fondazione di una convivenza umana pienamente liberata da tante minacce esterne e interne. L’immagine perfetta di questa convivenza è data dall’unità dei discepoli che pregano insieme. “In verità vi dico: se due di voi si accorderanno per domandare qualcosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà”. Anche queste sono parole molto impegnative. L’accordo dei discepoli nel chiedere la stessa cosa, qualunque essa sia, vincola Dio stesso nel concederla. Dio dà agli uomini uniti in un’unica volontà un potere immenso.
E se questo non accade o non appare, dobbiamo interrogare il nostro modo di pregare, che forse è viziato in radice da individualismi e indifferenze parallele. La stessa liturgia domenicale talora è sentita in modo individualista: ognuno viene qui per proprio conto e per il proprio interesse. La santa liturgia è, invece, il momento privilegiato per costruire l’unità e l’armonia nel pregare e nel chiedere. Se la nostra preghiera non sembra ottenere risposta è anche perché non ci siamo interrogati abbastanza sul nostro prossimo, su chi ha bisogno, su chi aspetta che qualcuno si ricordi di lui. Anche il miracolo della pace dipende da questo accordo nella preghiera.