La Chiesa fa politica. La Chiesa non fa (più) politica. La prima di queste due affermazioni sembra datata, tanto che in molti, dopo l’esito del voto politico del 4 marzo scorso, con la sostanziale scomparsa delle forze moderate di centro e l’affermazione schiacciante di partiti e movimenti che non hanno, nel loro bagaglio valoriale, un richiamo che possa ricondursi in modo diretto ai valori della tradizione cattolica, hanno parlato di eclissi del cattolicesimo democratico dalla scena politica.
Se per ‘fare politica’ si intende quella che per decenni nel dopoguerra è stata etichettata come ‘ingerenza’ vera e propria nell’azione dei partiti, certo questo, negli ultimi tempi, sembra essere venuto meno. Ma le prese di posizione dei vescovi italiani prima e dopo le ultime elezioni fanno invece ritenere la Chiesa di oggi una vera e propria protagonista della politica: quella alta, che ragiona del presente partendo dalle esigenze reali degli individui, e che non si esime dal tracciare prospettive di futuro. Ne è diretta conferma l’intervento con cui si è concluso, il 21 marzo scorso, il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana.
I vescovi italiani, tutti (il documento, illustrato dal loro presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti, è frutto del loro lavoro collegiale) hanno analizzato senza riserve o pregiudizi il risultato delle elezioni ed il quadro politico che ne è scaturito. “I partiti hanno il diritto e il dovere di governare”, ha affermato Bassetti: nessuna preclusione o veto, dunque, verso questo o quell’altro partito, e neanche nessuna preferenza per questa o quell’altra soluzione di governo. Ma un paletto preciso: chi governa lo deve fare “nell’interesse del bene comune e dei territori”.
L’espressione “bene comune”, il presidente dei vescovi l’aveva usata anche nel febbraio scorso, nella relazione conclusiva del consiglio direttivo della Cei. In quella stessa sede, Bassetti aveva sollecitato le forze politiche che si preparavano al voto a “ricucire, ricostruire e pacificare” il paese. Gli stessi verbi vengono riproposti nell’intervento del 21 marzo, nel quale non per caso si cita l’invito di Alcide De Gasperi, in occasione delle elezioni del 1953, ad agire “con più amore e fraternità”, dopo che “troppi hanno predicato odio”.
Nell’intervento di Bassetti, poi, non si gira intorno alle cause della sconfitta “della politica tradizionale”, di fronte alla cui “inadeguatezza” ha “avuto buon gioco una nuova forma di protagonismo e di consenso dal basso, attivo e diffuso, anche se non è ancora prova di autentica partecipazione democratica”: sembra chiaro il riferimento al risultato del Movimento Cinquestelle, ancora più evidente in un altro passaggio dell’intervento, ovvero quando si parla della “scorciatoia di promesse di beni materiali da assicurare a tutti” (reddito di cittadinanza, ma anche la ‘tassa piatta’ della Lega).
Infine, il punto più alto ed autenticamente politico dell’analisi dei vescovi: per la nuova maggioranza di governo, i presuli italiani bocciano una soluzione basata sulla “ricerca di volta in volta di un accordo sul singolo problema”, privilegiando invece “una visione ampia, grande, condivisa, un progetto-Paese”. Il tutto, avendo come faro la Costituzione.
Se non è fare politica tutto ciò… Ma ben venga, in questo ‘inverno’ italiano in cui ogni anelito di futuro, ogni prospettiva di crescita umana e sociale sembra impantanarsi dentro le nebbie dei pregiudizi e delle chiusure aprioristiche.
Daris Giancarlini