La carretta e la gioia

ABAT JOUR

Caro Presidente del Consiglio, non l’avrei mai immaginato un viaggio con Lei sulla stessa caretta. La carretta degli imputati. La carretta del disonore: visto che dalla notte dei tempi la gente (‘a mittica ggente!) ha sentenziato che ‘quando bonisce, da qualche parte piove’. Io su quella carretta ci son salito, insieme coi miei tre principali collaboratori, nella primavera del 2000 e ne sono disceso (ne siamo discesi) solo il 3 aprile 2007. In quei sette anni Lei è salito più volte, ma (diversamente da noi) è ridisceso altrettante volte; Lei disponeva di una serie di scalette a pioli adatte per scendere; dove le teneva? Non so, ma apparivano sempre al momento giusto. Io no. Io e i miei no. Io ero (noi eravamo) su quella carretta perché, nella primavera dell’anno 2000, il Gran Capo di an al Consiglio comunale di Gubbio aveva avanzato un’interpellanza per sapere se la gestione economica della mia comunità fosse davvero quello specchio di trasparenza che si diceva. Su questa base la Procura della Repubblica di Perugia aprì un’inchiesta. A San Girolamo salirono i carabinieri con la sirena a tutto volume e la divisa d’ordinanza, per sequestrare i documenti da contestare; e quando io feci notare all’autista della pantera che il mio amico Tenente Colombo era uso tirar fuori, dal viluppo delle gricce del suo impermeabile, la patacca da poliziotto sempre con molta discrezione, mi sentii rispondere: ‘Ordini superiori!’. Heil Hitler! Sette anni. Prima, nel 2003, il Tribunale sentenziò che non c’era materiale per iniziare un processo; effettivamente, a rileggere le deposizioni firmate… era tutta robetta da retrocucina. Ma il Pm si appellò; eppure – dicevano – era una ‘una toga rossa’, e io avevo fama di tendere al rosso. Sette anni. Lunghi, sì lunghi. Infine, quel 3 aprile 2007. Aula penale del Tribunale di Perugia. Carlo e Fabio, i due avvocati che ci hanno difeso gratis, al posto di combattimento, con davanti una pila di fogli alta così. Noi quattro tapini in attesa non proprio serena. Parla il Pm. Non era quello che si era appellato nel 2003, ma un suo collega. Dice: ‘Signor Presidente, don Angelo e i suoi dappertutto dovrebbero trovarsi tranne che in un’aula penale. A nome del Popolo italiano, del mio collega e mio personale, chiedo loro scusa per quanto è successo in questi sette anni’. Io rimasi interdetto e chiesi ad un usciere che mi stava vicino: e adesso, che dobbiamo fare? E lui: ‘Mah, un ristorante dove se magna bene, lo conoscete sì!?’. Da Cesarino, in piazza IV novembre. Con il diabete messo tra parentesi. Signor Presidente, posso augurare anche a lei una gioia quale quella mia di quel giorno. Dia retta, rimandi a casa Angelino col buffetto affettuoso che lei riserva a tutti quelli che lo chiamano ‘papi’, e si appresti a vivere la stessa gioia mia di quel giorno. Da Cesarino, in piazza IV novembre. Pago io (paghiamo noi).

AUTORE: Angelo M. Fanucci