L’elezione dell’assisano Franco Falcinelli alla presidenza della Federazione italiana di pugilato, avvenuta il 10 scorso durante un’agitata assemblea elettorale, offre l’occasione di riflessione su qualche aspetto etico di questa popolare disciplina sportiva. E lo faccio non prima di aver rivolto un cordiale augurio al nuovo Presidente, stimabile come persona e conoscitore come pochi del mondo pugilistico per essere stato tra l’altro commissario tecnico, consigliere federale e presidente della commissione professionisti. L’augurio che gli rivolgo è quello di rendere quanto più possibile umana un’attività che presenta gravi problemi di natura morale. Tali problemi – ed entro così subito nel vivo della questione – derivano dal fatto che nel pugilato il fattore traumatico costituisce un elemento essenziale per conseguire la vittoria. Si dirà che ogni attività sportiva comporta la possibilità di traumi, anche gravi, e perfino la morte di chi la pratica o di chi l’osserva dall’esterno, com’è accaduto nei giorni scorsi sul circuito automobilistico di Melbourne. Ma in questi casi l’evento drammatico o tragico è incidentale; è previsto, ma certamente non è voluto. Nella boxe, invece, il danno dell’avversario è voluto e ricercato in ogni istante del mach perché solo a quella condizione è possibile conseguire la vittoria. I fautori del pugilato dicono che esso presenta molti aspetti positivi, come quello di sottrarre tanti ragazzi dai pericoli dell’ozio e della strada, o di far crescere in loro la consapevolezza che per raggiungere uno scopo sono necessari sacrifici e rinunce, come pure di insegnare il controllo delle proprie reazioni e agilità di pensiero e di gesto di fronte a situazioni impreviste. E questo è certamente vero. Credo anzi che l’amico Falcinelli, che ho sentito alla vigilia della sua elezione, possa aggiungere altri vantaggi derivanti dall’attività pugilistica, come la concentrazione, il coraggio, la prudenza ecc. E tuttavia il problema di fondo resta; ed è che la vittoria sul ring è ottenuta attraverso il danno direttamente prodotto al fisico e al sistema nervoso dell’avversario, in particolare al cervello. Occorre infatti rendersi conto che quando un pugile viene messo al tappeto per un knock-out, quando cioè rimane privo di conoscenza per effetto del colpo decisivo e dei precedenti ripetuti minuscoli, è perché il suo cervello ha subito un danno irreversibile. E il cervello, a differenza degli altri organi, non ha la capacità di rinnovarsi. Quando una sua cellula muore, non viene sostituita da un’altra, ma solo da un tessuto cicatriziale privo di qualsiasi valore per l’attività intellettiva. In ogni match i pugni dati e ricevuti sono centinaia. E’ stato calcolato che nell’incontro dei pesi welter La Hoya-Quartey del 13 febbraio 1999 furono portati in totale 1159 colpi, 407 dei quali andati a segno. A segno dove? Molti certamente sulla testa. Ogni pugno alla testa giunge inevitabilmente al cervello, che è uno degli organi più delicati e vitali della persona. Dopo ogni tragedia le polemiche sulla liceità della boxe, specie professionistica, si riaccendono furiose, come avvenne anche nel caso del povero Fabrizio De Chiara deceduto il 17 novembre 1996 per morte cerebrale, come scrissero i giornali; anzi “ucciso”, come invece disse allora l’ex campione del mondo, umbro pure lui, Gianfranco Rosi. Lo stesso che un anno prima, in occasione della morte del pugile filippino Roger Esponili, disse crudamente: “Siamo carne da macello. La vita del pugile non ha più valore”. In questi casi tutti dicono che bisogna fare subito qualcosa, senza aspettare la prossima volta. Ma tutto resta come prima. L’abolizione della boxe professionistica è stata chiesta parecchie volte, e da più parti, com’è già avvenuto per il duello. Penso che ciò sia per adesso un’utopia, visto che ora anche le donne, azzerando la loro femminilità, possono affrontarsi sul ring a suon di pugni, dopo aver ottenuto la parità tanto sospirata (soprattutto dalla ministra Bellillo, che alla predetta assemblea federale ha ricevuto la più grossa fetta di fischi). Per concludere, vorrei chiedere al neo presidente della Federbox Falcinelli: ma non si può fare proprio nulla per rendere meno pericoloso il pugilato professionistico? Non è pensabile, ad esempio, poterlo rendere più simile a quello dilettantistico introducendo guantoni diversi, casco protettivo, drastica riduzione del numero delle riprese, regole che permettano all’arbitro di interrompere un incontro che sta diventando pericoloso o che, addirittura, proibiscano i colpi alla testa? Io non so se queste richieste siano oggi possibili; le ritengo però necessarie. Anche per evitare il prossimo pianto di coccodrillo e una rinnovata richiesta di abolizione della boxe, dalla quale non potrei certo dissociarmi.
La box va proibita o diversamente regolata
AUTORE:
Don Vittorio Peri