Kenya: la rabbia dei poveri non uno scontro fra tribù

In esclusiva per 'La Voce' il commento di padre Francesco Pierli, missionario comboniano di Città di Castello, da anni impegnato nell'opera di evangelizzazione in Kenya

Il presidente sudafricano Thabo Mbeki battezza l’attuale momento dell’Africa ‘Rinascimento africano’. Dopo ciò che si è visto ultimamente in Kenya, l’affermazione può sembrare pazzesca. Eppure la trovo vera! Gli africani, dopo secoli di schiavitù, di colonialismo e di dittature, dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 hanno cominciano a comandare in casa loro. Le dittature sono scomparse, le elezioni si succedono ogni cinque anni regolarmente. Soprattutto, c’è un nuovo stato psicologico. Fino a pochi anni fa, di fronte a guerre, povertà, strutture sociali inadeguate, si scaricava la responsabilità sul passato, soprattutto sul colonialismo. Ora non più! La gente prende su di sé la responsabilità di quanto accade. Quando succedono disordini come in questi giorni in Kenya, gli stranieri non sono nel mirino come capro espiatorio. Cresce la coscienza continentale: l’Unità africana, forte di 53 Stati, comincia ad intervenire quando ci sono problemi come in Darfur, Somalia, Congo. Anche la Chiesa sta diventando sempre più africana; il secondo Sinodo africano è previsto per il 2009. La società civile è in forte crescita, con il mondo imprenditoriale, finanziario e operaio che si stanno posizionando. Le Ong hanno un forte peso nel settore dello sviluppo. Le donne sono sempre meno ai margini della vita sociale, culturale ed economica. Il turismo è in forte crescita. La Borsa è ben organizzata in diverse metropoli come Nairobi, Lagos, Johannesburg. La crescita economica annuale oscilla fra il 5/6%. Un certo afro- pessimismo di moda è ingiustificato e umiliante: i motivi di speranza sono ben radicati e numerosi. La democrazia è una strada in salita. Le elezioni del 27 dicembre 2007 sono state le prime con tanti partiti e tre contendenti alla presidenza della Repubblica: Mwai Kibaki, Raila Odinga e Kalonzo Musioka. Dal 1963, anno dell’Indipendenza, al 1997 il risultato elettorale era scontato: 99% per il dittatore di turno. Il pluralismo di partiti e di candidati del 2007 è stato veramente un fatto nuovo. I sondaggi avevano predetto un risultato di stretta misura: due o trecentomila voti di differenza su 14 milioni di elettori. Il processo elettorale è stato complesso, perché in un’unica tornata si sono eletti il presidente della Repubblica, i parlamentari (222) i consiglieri provinciali e comunali (2.500), per un totale di 29.000 seggi. Il Kenya è grande due volte l’Italia, con una rete stradale ancora insufficiente; assicurare l’arrivo per tempo di milioni di schede e urne elettorali è stata un’impresa titanica. Tutti riconoscono il ruolo fondamentale delle religione nella vita del Paese. Jomo Kenyatta, il padre della nazione soleva dire: ‘La religione è la coscienza della nazione: se fallisce, o è assente, la società implode’. I candidati presidenziali, soprattutto Kibaki e Raila, hanno cercato di usare il fattore fede per assicurarsi voti: Kibaki tra cattolici e Odinga fra gli anglicani, Kalonzo fra i pentecostali. I vescovi cattolici hanno mantenuto una formale equidistanza. Hanno aiutato gli elettori con due lettere pastorali in cui hanno illustrato i criteri per la scelta del presidente, dei parlamentari e dei consiglieri regionali e comunali. Ecco i tre più importanti: si eleggano solo canditati impegnati a cambiare la Costituzione nel primo anno del quinquennio; siano rifiutati i canditati coinvolti in casi di corruzione e violenza; si votino i candidati che hanno un vero programma di governo, con particolare attenzione alle grandi masse di poveri, che sono il 70% della popolazione. Il candidato più in linea con questi criteri era Kalonzo Musioka. Tenuto conto che i votanti sono stati 9 milioni su 14 milioni di registrati (su 34 milioni di abitanti), nessuno dei candidati ha ottenuto una maggioranza massiccia; Kibaki e Odinga a cavallo fra i 3 miloni e mezzo e quattro, Kalonzo intorno al milione. Nessuno può vantarsi di essere il presidente del popolo, anche se Raila è quello che ha raccolto più consensi nelle 8 regioni del Kenya. Nel conteggio dei voti vi sono state serie irregolarità, come denunciato dagli osservatori internazionali, dalla Conferenza episcopale e perfino dallo stesso presidente della Commissione elettorale (organismo governativo). I brogli sarebbero stati perpetrati in circa 50 seggi su 29.000 in favore di Kibaki, il quale nonostante la vittoria – si fa per dire – è stato sonoramente ‘schiaffeggiato’: tre quarti dei ministri del suo Governo non sono stati rieletti in Parlamento. Il popolo vuole un cambio di persone e di stile. La violenza è esplosa appena i risultati sono stati annunciati da Samule Kivuitu, presidente della Commissione elettorale, il pomeriggio del 30 dicembre. Per Kibaki 3.900.000 voti, circa 300.000 in più di Raila. Lo shock è stato grandissimo per tutti. Raila aveva la maggioranza nei conteggi dei primi due giorni; nessuno riusciva a capacitarsi di cosa fosse successo l’ultimo giorno. L’opposizione ha gridato al broglio, la piazza è esplosa; il Kenya si è ritrovato in fiamme. Le baraccopoli di Nairobi, Kisumo, Mombasa ed Eldoret, che speravano in un nuovo futuro con Raila, hanno vomitato tutta la loro frustrazione e rabbia. La polizia è stata colta di sorpresa. Un disastro: 350 morti, 300.000 rifugiati, danni finanziari di miliardi, con saccheggi e incendi. L’immagine del Kenya come Paese pacifico e stabile è andata in pezzi, con ripercussioni immediate sul turismo e in Borsa. Una riflessione si impone. In Kenya la violenza ‘calda’, quella con i morti, è minima in paragone a Somalia, Congo, Sudan. Ma c’è un’altra violenza, quella istituzionalizzata, il cui simbolo sono le baraccopoli con milioni di abitanti, la maggioranza della popolazione del Kenya. È vero, Kibaki può vantare un buon sviluppo economico negli ultimi cinque anni. Ma non nel campo sociale. La povertà si è incancrenita, il numero dei poveri aumentato. È esplosa questa rabbia, non quella tribale! Le 42 tribù del Kenya vivono mescolate, pregano insieme in chiesa, vanno a scuola insieme dalla materna all’università, hanno squadre di calcio inter-tribali e vengono celebrati molti matrimoni inter-etnici. Presentare i kenyoti come feroci tribalisti è un’ingiustizia contro la stragrande maggioranza di loro. Ciò che è avvenuto è l’esplosione di quella rabbia dei poveri di cui parlava già 40 anni fa Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio come di una spada di Damocle sul collo dell’umanità. La violenza, con più di trecento vittime, è venuta fuori là dove la gente non ha speranza, dove i giovani sono disoccupati, e le case – si fa per dire – sono di cartone. La causa ultima della violenza in Kenya in queste ultime settimane ha poco a che vedere con il tribalismo e moltissimo con la povertà, la disperazione, la corruzione e il lusso sfrenato di pochi. Senza dimenticare il fatto che in tutte le città si nascondono bande criminali e politici mafiosi pronti a cogliere ogni vuoto politico per mobilitare i disoccupati, soprattutto i giovani, allo scopo di rubare, distruggere e uccidere. Come venirne fuori? Solo con la collaborazione di tutte le forze sociali, economiche, religiose e politiche. In questo momento il Kenya non ha bisogno di un vincitore a spese degli sconfitti. Ma di politici che mettano il bene comune, soprattutto quello della maggioranza povera della popolazione, come priorità assoluta. Tutti, kenyoti e stranieri, vogliamo la pace e la giustizia. I giornali, le radio locali e le stazioni televisive trasmettono in continuazione appelli alla pace. Tutti i giornali e le testate televisive del 3 gennaio non facevano che ripetere: Salvate la nostra amata patria. Il 6 gennaio tutte le reti televisive hanno trasmesso in contemporanea un’ora di preghiera per la pace e la collaborazione. Che Dio, la preghiera e l’esperienza politica, diplomatica e giuridica internazionale e locale aiutino a trovare una soluzione.

AUTORE: P. Francesco Pierli