L’intervista che il 18 u.s. il card. Martini ha concesso ad Eugenio Scalfari mi ha coinvolto. Per Barbeugenio ho sempre avuto molto rispetto e poca simpatia: m’è sempre sembrato troppo solenne, troppo apodittico, troppo’ barba. Per il card. Martini invece nutro sentimenti filiali fortissimi. Nel 1979, Giovanni Paolo II lo nominò arcivescovo di Milano. P. Carlo, gesuita e rettore dell’Istituto Biblico (quello che conferisce le lauree più difficili del mondo), pensò bene di prepararsi all’evento non con la classica settimana di ritiro spirituale, ma con una settimana di campo di lavoro a Capodarco di Fermo, in incognito. E quando alla metà di settembre del 1982 inaugurammo la nostra Comunità di Capodarco dell’Umbria, che fino al 1997 si chiamò Centro Lavoro Cultura, fu lui che al S. Girolamo di Gubbio, senza prosopopea, ci dettò un programma di vita che era un concentrato di fede concreta e operativa. Appena qualche giorno prima aveva assistito sul letto di morte Eugenio Montale. Di quello che ha detto Scalfari mi ha coinvolto il ricordo di un loro precedente incontro sul tema LA PACE È IL NOME DI DIO (Che cosa può unire oggi cattolici e laici): ‘Eravamo d’accordo su tutto, la sua etica era anche la mia, lui la riceveva dall’alto, io dall’autonomia della mia coscienza’. Già. E che altro vuol dire l’affermazione di Pentecoste, che ‘lo Spirito santo permea il mondo’? Riservando alla Sua insindacabile saggezza la modalità di’ permeazione più giusta, la più personalizzata per l’irripetibile situazione di ogni singolo uomo. Permea e parla: con la Parola di Dio garantita dalla Chiesa, o con la coscienza che detta il ritmo della vita a chi non l’ha atrofizzata. Di quello che ha detto Martini mi ha coinvolto un’affermazione: che è ormai indilazionabile la necessità di ridisegnare il percorso penitenziale tipico della vita cristiana. Vede, la confessione è un sacramento estremamente importante ma ormai esangue. Da praticare intensamente finché esiste in questa forma, ma questa è una forma esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano, anche perché il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto finisce così. Nel nulla o poco più. Bisogna ridare alla confessione una sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un programma di vita. Anche recuperando la figura del direttore spirituale. Ripensare questo sacramento: se n’è accennato altre volte, poi non s’è mosso nulla. Anche l’amico Nicola Molè me lo ricordava in una lettera di qualche tempo fa. Non se n’è fatto nulla. E sullo sfondo rimane, minacciosa al di là della sua connaturata superficialità, la barzelletta di don Romano. Confessione standard. Al ‘Tribunale della penitenza’ si comincia con il saluto. Poi i prodromi (Da quanto tempo’? E come mai’? E cosa ricordate’?)Poi, una voce tesa, drammatica: ‘Ho ucciso il babbo e la mamma’. Silenzio. Poi ancora un voce, ma stavolta venata di sonno: ‘Quante volte?’.
Indilazionabile
ABAT JOUR
AUTORE:
Angelo M. Fanucci