Non è la prima volta, e non sarà l’ultima. Sono stato lì lì per denunciarla, la donna di picche, per millantato credito e per circonvenzione di incapace: me ne ha dissuaso all’ultimo momento l’elementare presa di coscienza che l’incapace sarei stato io. E questo, soprattutto dopo la diagnosi che emise il medico che radiografò la mia scatola cranica… vi ricordate, era il 20 novembre e io, a Roma, all’ingresso laterale di piazza S. Pietro, avevo dato una capocciata terrificante contro il plinto di base di una delle colonne del Bernini, e all’Ospedale del Bambin Gesù il radiologo aveva emesso la sua sentenza: “Dentro questa testa non c’è nulla!”. Con precedenti di questo genere, qualificarmi, oggi, motu proprio, come “incapace”, e farlo in un tribunale, sarebbe stato letale.Eppure sono stato davvero circonvenuto, dalla donna di picche, che oggi mi ha con trascinato di fronte al giudice del lavoro. Qualche anno fa essa lasciò la mia comunità, dopo qualche anno di soggiorno, e (a sentire lei) allora l’avrebbe fatto volentieri “in cambio di una stretta di mano e di un caffè”; oggi, in base ad un presunto rapporto di lavoro, che in realtà non è mai esistito, chiede 200 mila euro! Quanto son lunghi, 200 mila euro. E quanti caffè ci scappano, con 200 mila euro! Bah! Venne, un giorno, dal Sud, vestita di sole, la donna di picche, la signora dei 200 mila euro, e mi disse che voleva donarsi ai “ragazzi” della mia comunità, spendendo e centellinando la sua a vantaggio della loro vita, con una generosità talmente debordante che io ci credetti tout court. Ullallà. E oggi siamo qui, l’un contro l’altra armati, davanti al giudice del Tribunale del lavoro. Il giudice. Un servitore dello Stato che non ha nulla del giudice che la gente immagina: corpulento, catarroso, parruccone, con le lunettes ammezzate. Gna. Davanti a noi c’è una flebile signora, giovane, mingherlina, frangetta in studiato disordine: una laureata ieri con una tesi sulle monache di Port Royal. Ma proprio da lei, improvviso, inatteso, mi arriva il primo sganassone; sto spegnendo il telefonino, e lei fa: “Il cellulare lo si spegne prima di entrare in aula di udienza”. Touché. Altrettanto improvviso, altrettanto inatteso, e in rapida successione mi arriva il secondo sganassone, un attimo dopo che mi sono stiracchiato all’indietro sulla sedia: “Non si parla al giudice con le mani in tasca!”. Ari-touché. E mi ritrovo in seconda elementare, inguainato nel grembiulino azzurro, grande il fiocco bianco sul davanti. La maestra mi ha sorpreso a scaccolarmi il naso con le dita, e ora minaccia di prendermi a bacchettate sulle mani. infreddolite. “Dalla parte delle palme, la prego, Signora!”. Che tanto dovesse accadermi in un tribunale fu impensabile fino a quando, l’8.2.11 divenne reale.
In tribunale
Abatjour
AUTORE:
a cura di Angelo Maria Fanucci