E se provassimo a guardare al fenomeno della immigrazione da un punto di vista costruttivo? Che è, poi, una precisa tecnica di marketing nota come “capacità di cogliere le opportunità”. Il problema, mi pare, sia sostanzialmente questo: non è realistico supporre che si possa bloccare l’immigrazione, legale o clandestina che sia, e neppure che ad essa possano essere posti argini a un tempo non eccessivamente costosi e di sicura efficacia. Chissà perché, al proposito, mi viene in mente il tentativo di sterminio che Hitler mise in atto contro gli ebrei (e che, peraltro, qualche altro Paese che si ostina a voler essere considerato civile cerca ancor oggi di attuare a spese delle minoranze etniche)! Al di là delle (ovvie) considerazioni di ordine etico, giuridico e più in generale umanitario, quel periodo tristissimo della storia della civiltà occidentale va condannato anche per la assoluta contraddizione del piano e conseguente inadeguatezza delle azioni agli obiettivi generali di un miglioramento della società descritto in modo palesemente erroneo. Le stesse caratteristiche degli errori che compiono le imprese destinate al fallimento: individuazione scorretta degli obiettivi e, in funzione di essi, errata analisi della fattibili e pianificazione di gestione del tutto fuori della realtà. Costi a livelli eccessivi e risultati del tutto antieconomici, perdite immani e fallimento. Bloccare la immigrazione dal terzo mondo (o comunque da Paesi che non fanno parte del nostro sistema o ancora da Paesi semplicemente più poveri) è utopia. E utopia dannosa, poiché non solo induce a pianificazioni operative destinate al fallimento per inefficacia, ma anche a costi insostenibili. Per non parlare delle opportunità che un atteggiamento come quello descritto spreca per non averle individuate. Le quali opportunità consistono nell’apporto che culture diverse danno ad una qualsiasi realtà, arricchendola, e non o non solo (per coloro che, proprio, non riescono a vedere nel “diverso” qualcosa di più di una macchina da sfruttare) in termini di forza di lavoro a basso costo per lo svolgimento di attività ritenute umili e non degne di un appartenente a “livelli superiori di civiltà”. Certo è che il nuovo e il diverso comportano una accettazione e dunque una grande disponibilità e flessibilità, perché comunque turbano un equilibrio al quale ciascuno di noi è abituato ed al quale non è facile accetti di rinunziare, vuoi per il timore che sempre porta con sé il nuovo, vuoi perché non di rado accettare certe novità può significare la sopportazione di qualche sacrificio non previsto. È il senso della resistenza al cambiamento. Cogliere le opportunità che per la nostra società si presentano a seguito della immigrazione significa in pratica certamente prevedere i danni che a questa possono derivare da una pace sociale turbata non tanto e non solo dalla diversità in sé, quanto dalla miseria alla quale spesso si accompagna l’ignoranza e, dunque, pianificare e predisporre i mezzi necessari ed opportuni non perché vengano costruiti ghetti ed erette barriere, ma perché nell’ottica di una economia che a livello planetario dovrà vederci protagonisti e comunque non vittime, l’immigrazione contribuisca ad assicurare la miglior tutela possibile dei nostri interessi per il più lungo tempo ipotizzabile ed al costo minore. Aprire, accogliere e formare è una alternativa non solo praticabile ma, nel lungo periodo, ampiamente pagante. E gli Stati hanno come caratteristica proprio anche quella di dover guardare al lungo periodo quasi per definizione. Esattamente come una qualsiasi impresa seria e consapevole guarda al mercato innanzi tutto in un’ottica di largo respiro e poi, in questo ambito, alle attività esperibili in breve. Occorre accogliere, predisponendo tutto ciò che è necessario a farlo, proprio partendo dal principio che colui che entra è un appartenente al genere umano e ne ha la dignità, che è pari alla nostra. Ed anche perché assicurare la sopravvivenza significa, sì, sostenere dei costi, ma vuol dire anche ridurre di gran lunga le probabilità (consistenti) di una conflittualità sociale certamente molto più costosa e che renderebbe molto più precaria di quanto già non sia la sopravvivenza così della nostra società come del nostro tipo di civiltà. E occorre formare, nel senso che – così come qualsiasi impresa si preoccupa di dare al nuovo assunto gli elementi necessari perché possa conoscere il mondo nel quale viene inserito assieme agli elementi della attività che dovrà svolgere – all’immigrato vanno resi noti i principi che informano il nostro modo di vivere. È esattamente quanto dovrebbe accadere nella nostra scuola per chiunque di noi: imparare a vivere nella nostra società. E ciò è possibile senza che si diventi un numero soprattutto se si impara una corretta metodologia di lavoro che inviti al confronto e che consenta di scegliere ciò che è migliore. Per quanto riguarda gli immigrati, significa ammetterli a conoscere i “valori” della nostra società perché possa confrontarli con i propri, eventualmente accettarli o anche proporre modifiche che una società veramente civile a sua volta vaglierà e si mostrerà se del caso disponibile ad accettare facendoli propri oppure ad accettare semplicemente non impedendone la pratica. E torna in evidenza la scuola, nella quale l’immigrato dovrà trovare la prima dimostrazione della assoluta eguaglianza e della assoluta considerazione nella quale è tenuta la sua dignità di uomo.
Immigrati e formazione
AUTORE:
Paolo M. Di Stefano