C’è sempre un residuo di paganesimo nel nostro pensare a Dio, e nel rifiuto che caratterizza tanti nostri contemporanei. Verso Dio nutriamo più paura che amore, perché lo immaginiamo insensibile, capriccioso, inesorabilmente giusto fino ad essere vendicativo, estraneo al nostro mondo, egoista e chiuso gelosamente nel suo Olimpo impenetrabile. È l’immagine che i nostri antenati avevano dei loro dèi e che noi abbiamo ereditato in forma ancestrale. Un’immagine che è stata appena scalfita dalla rivelazione biblica che ha tentato gradualmente, e spesso inutilmente, di correggerla. Molta nostra gente continua a mescolare le due immagini in un miscuglio di fede e di superstizione.
La Santa Trinità non è un’astrusa formula algebrica di teologia speculativa, una specie di enigma incomprensibile, è una verità meravigliosa e rassicurante. Il Dio cristiano è un Dio aperto in se stesso e verso le sue creature amatissime. La fede in un Dio unico che si manifesta in tre Persone: Padre, Figlio e Spirito santo, è verso un Dio ricco di vita e appassionato di noi tutti. È una misteriosa famiglia, dove c’è un Padre che ama, un Figlio che è divenuto nostro fratello, uno Spirito che lega inseparabilmente nella comunione tutte tre le Persone divine, facendone una cosa sola, ma che lega indissolubilmente anche noi alla famiglia divina.
La vita divina non è un palude stagnante, è una corrente irresistibile che mette in circolazione relazioni affettuose tra Padre, Figlio e Spirito santo, una corrente di amore che trabocca all’esterno e travolge tutti noi. Dal battesimo noi siamo impastati di vita trinitaria, perché battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Da queste tre persone ha inizio la nostra salvezza. La prima lettura ci riporta al monte Sinai, il luogo delle prima rivelazione di Dio al suo popolo di salvati dalla schiavitù egiziana. Mosè aveva già conosciuto Dio e aveva più volte parlato con lui “faccia a faccia”, per quanto era possibile ad un uomo farlo. Ma sentiva che quella conoscenza era imperfetta; Dio gli nascondeva ancora il meglio di sé. Perciò implorò umilmente: “Mostrami la tua gloria!” (Es 33,18). Dio gli rispose: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo… Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,20s).
Era come dire che la rivelazione di Dio richiesta sarebbe restata pur sempre incompleta anche per Mosè, uomo santo, amico intimo di Dio. Tuttavia Mosè capì che il Dio liberatore era un Dio ricco di amore. Per ricordare quella sua esperienza mistica moltiplica gli aggettivi. Dice che il Signore è rachum e channun, cioè ricco di “amore materno viscerale” e di “robusto amore paterno”; il che equivale a dire che Dio è madre e padre nello stesso tempo. Perciò è “lento all’ira e ricco di misericordia e di fedeltà”. Questo lo porta a conservare affetto per mille generazioni senza smentirsi. Mille anni, per gli antichi ebrei, erano il numero massimo della durata, senza possibilità di calcolo. Comunque tutti dovevano sapere che la misericordia del Signore superava la sua giustizia come mille supera quattro. Una distanza incolmabile, una voragine d’amore davanti ad un forellino, una montagna di fronte ad un ponticello di sabbia. E questo non è ancora tutto, perché il passo ulteriore della rivelazione divina è stato da gigante, tanto da annullare perfino questo minimo scarto. È ciò che ci dice oggi il brano del Vangelo secondo Giovanni.
L’evangelista aveva iniziato il suo scritto avvertendo che la rivelazione mosaica sarebbe stata di gran lunga superata: “La legge fu data per mezzo di Mosè, la misericordia e la fedeltà vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio non l’ha mai visto nessuno; proprio l’Unigenito Dio, che è nel grembo del Padre, ce l’ha rivelato” (Gv 1,17-18). Si tratta di una rivelazione personale calata nella vita di ogni giorno a livello umano concreto. Gesù, nella cena pasquale, rispondeva all’apostolo Filippo, che gli chiedeva di potere vedere il Padre: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai ancora conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?… Il Padre che è in me compie le sue opere” (Gv 14,9-10). E dunque nel parlare e nell’agire del Figlio si rivela lo stesso Dio Padre. Gesù non parla per sentito dire, parla per esperienza e ricchezza personali, la sua umanità è come un vetro che fa trasparire il Dio che la possiede. Quando afferma, nel Vangelo di oggi, che “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”, rivela una verità vissuta dal di dentro, ricca di conseguenze sul piano della fede.
Innanzi tutto dice che il volto di Dio è l’amore. Giovanni lo ripete più esplicitamente nella Lettera di accompagnamento al Vangelo dicendo: “Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo suo” (1 Gv 4,8-9). Quell’amore si manifesta nell’agire umano di Gesù nel modo più chiaro. Tale amore è un dono così grande che arriva fino al sacrificio del Figlio sulla croce. Infatti “non c’è amore più grande di colui che dona la vita per le persone che ama” (Gv 15,13). Nel Vangelo di oggi Gesù usa una frase scultorea che riassume tutta rivelazione storica della Trinità divina: “Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.
Dio si è rivelato e si è donato a noi come Padre, Figlio e Spirito santo unicamente per la nostra salvezza. Questo è l’unico motivo che ha mosso il Dio-amore nel suo indicibile atto di donazione del Figlio e dello Spirito. Questa salvezza è universale e irreversibile. Universale perché abbraccia il mondo intero, uomini e creato. Dio è perdutamente innamorato delle sue creature e non vuole perderne nessuna. Irreversibile perché non da luogo a ripensamenti. Dio non avrebbe creato nessuno se non lo avesse amato. Non si mette al mondo un figlio senza amarlo. L’amore e la salvezza non sono riservate ad una parte privilegiata e selezionata, sono di tutti. Dio non ha una volontà di salvezza e una di rovina. Ha solo voglia di salvare tutti e ha mandato il suo Figlio e lo Spirito per tutti.
La condanna non è comminata da Dio, ma da ciascuno di noi, creati liberi di scegliere tra bene e male. Il sole brilla per tutti e tutti illumina e riscalda, ma ci si può nascondere nel buio e rifiutarlo. Allora ci si condanna da noi stessi alla notte, alle tenebre. La scelta e l’accettazione del dono di Dio restano un atto personale, che si gioca qui e oggi, sotto la diretta responsabilità di ciascuno. Non è Dio che giudica, siamo noi che ci mettiamo liberamente dalla parte sbagliata. Gesù dice che lo facciamo perché preferiamo le tenebre alla luce. L’accettazione del dono di Dio è impegnativa. Non tutti accettano la fatica della ricerca della verità e dell’onestà. La via del male appare più comoda, larga e spaziosa. È una via in discesa che invita e trascina, invita a chiudere gli occhi e lasciarsi andare (Mt 7,13-14).