Il Vangelo di questa domenica illustra la domanda del Padre nostro che dice: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Il racconto parabolico è caratterizzato da due scene in contrasto fra loro: quella dell’incredibile condono da parte del padrone, e il rifiuto di concederlo, altrettanto incredibile, da parte di chi era stato graziato. Il personaggio centrale è il servo impietoso (la tradizione luterana lo chiama “inetto e malvagio”), che compare nelle due scene: nella prima come debitore insolvente, nella seconda come creditore. Sua immagine speculare di debitore, che compare nella seconda scena, è il collega di servizio; vi si ripete quasi alla lettera la richiesta di dilazione del pagamento: “Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto”(Mt 18,26.28).
Il padrone pietoso però è il vero protagonista; la parabola rivelerà poi che è l’immagine del “Padre mio celeste” (Mt 18,35). Gli altri personaggi sono di contorno, funzionali alla narrazione. Colpisce la sproporzione fra i due debiti: 10.000 talenti da una parte, 100 denari dall’altra. Ci incuriosisce sapere a quanto corrisponde quella cifra, tradotta in termini attuali. Purtroppo la nostra curiosità rimarrà sostanzialmente inappagata. Sappiamo solo che un denaro era la paga giornaliera di un operaio e che un talento, a seconda dei territori e dei periodi storici, poteva valere da 6.000 a 10.000 denari. I 10.000 talenti della parabola rappresentano comunque una somma pressoché impagabile.
Del resto il debitore, di cui si legge che era uno dei servi (letteralmente uno degli schiavi), deve essere stato in realtà qualcuno simile a un importante operatore finanziario. Colpisce ancora di più l’animo grande del padrone, che si lascia impietosire dalle suppliche del debitore minacciato di perdere tutti i suoi averi ed essere venduto schiavo, insieme alla moglie e ai figli. (In tempi passati un’operazione del genere era tutt’altro che rara).
C’è una parola nel testo che ce ne dà la chiave di lettura: “compassione”. Si legge che il padrone “fu preso da compassione” (Mt 35,27). Nella lingua originale di questo Vangelo, il greco, il termine corrispondente al nostro “compassione”, ha a che fare con le “viscere”. Come dire che la situazione disperata dell’amministratore inetto e malvagio sconvolse il cuore del padrone. Qualcuno fra noi conosce qualche magnate della finanza, dal cuore così tenero da lasciarsi vincere dalla compassione, al punto condonare una somma di quelle dimensioni? Credo di no. Molti di noi, al contrario, conoscono signori che prendono per il collo i loro debitori, anche per molto meno di 100 denari.
Tutto ha inizio con san Pietro, che pone una, domanda, per così dire, di tipo disciplinare. “Quante volte devo perdonare il fratello che pecca contro di me?” (18,21). La domanda non verte sulla questione: perdonare sì, o perdonare no. È scontato che sì. Piuttosto: “Quante volte?”. L’espressione “il fratello che pecca contro di me” fa pensare all’esistenza di una comunità di fratelli. Quando Matteo scrive il suo Vangelo, la comunità cristiana era già in vita già da alcuni decenni, con le conseguenti difficoltà di convivenza fraterna, che non è difficile immaginare. Per loro l’evangelista, ricordando la vicenda di Gesù, imbastisce questa catechesi sul perdono vicendevole, possibile solo dopo che si è ricevuto quello di Dio.
Allora, come oggi, il perdono reciproco è decisivo per la qualità delle relazioni personali; su di esse la comunità si edifica o si distrugge. La risposta di Gesù è un gioco di numeri che ruota attorno al 7. Il numero 7, proposto da Pietro, portava già in sé un senso di completezza, ma limitata nel tempo. Noi avremmo detto: la pazienza ha un limite. Gesù lo corregge, moltiplicandolo per 10 e poi ancora per 7; e con ciò elimina ogni limite. Quel 7 fa pensare, per contrasto, a due personaggi dell’Antico Testamento, Caino e Lamec (Gn 4,24), in contesto di vendetta, non di perdono.
Quale insegnamento ne viene a noi oggi? Al fratello va concesso il perdono senza misura, com’è quello di Dio per noi; consapevoli che la misura del debito nostro non è lontanamente comparabile con quello che altri hanno verso di noi. Solo la consapevolezza di questa sproporzione sarà capace di renderci compassionevoli con il fratello. D’altra parte la gigantesca cifra condonata al servo inetto e malvagio dice che solo Dio può perdonare tutto e subito, qualunque sia l’offesa. Perché l’uomo possa farlo, è necessario che prima la misericordia di Dio trasformi il suo cuore. La misericordia ricevuta e quella da rendere scaturiscono dalla stessa Fonte.