Il suo trono è stato il patibolo della croce

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia XXXIV Domenica del tempo ordinario Cristo Re - anno B

Sulla parete di fondo dell’anno liturgico che oggi si conclude, come in una delle absidi spoglie delle nostre chiese medievali, si staglia il grande crocifisso con il cartello che Pilato fece scrivere e porre sopra il suo capo: “Gesù nazareno re dei giudei” (abbreviazione latina: INRI). Quella scritta, composta nelle tre lingue allora parlate, suona come una proclamazione ufficiale. È già un fatto paradossale che nei Vangelo si parli di “Cristo re” solo nei racconti della passione, dove questo titolo è il motivo della sua condanna a morte. In Giovanni quella parola compare addirittura dodici volte. Da lui viene il brano del vangelo appena letto. Costituisce il secondo episodio dei sette con cui è scandito il processo di Gesù davanti al procuratore romano Ponzio Pilato.

Tutto sommato quello celebrato da Pilato è l’unico vero processo al quale Gesù è sottoposto, perché gli interrogatori davanti a Caifa e al Sinedrio appaiono piuttosto come inchieste giudiziarie. Dopo quelle inchieste preliminari, Gesù fu portato al tribunale romano, il solo che aveva il potere di condannare a morte l’imputato. Qui fu formulato chiaramente il principale capo di imputazione, che era quello di essersi proclamato re. Su questo capo d’accusa del processo romano i quattro vangeli sono tutti d’accordo. I membri del Sinedrio formularono la loro denuncia a Pilato fuori del palazzo pretorio. Non potevano entrare in casa di un pagano, altrimenti si sarebbero contaminati e non avrebbero potuto celebrare la Pasqua, che iniziava proprio la sera del processo (18,28). Il procuratore non sembrò dare molta importanza a quei fanatici accusatori e, all’inizio, tentò di rifiutare un processo che veniva a turbare la sua quiete. Ma dietro insistenza dei capi giudei, entrò nel pretorio e fece chiamare Gesù. Iniziò così, in maniera stanca e controvoglia, il processo più importante della storia. Esso si svolse tutto attorno al tema della regalità di Cristo, l’unico che i romani potevano prendere in seria considerazione.

Il processo romano si basava principalmente sull’interrogatorio dell’imputato; non prevedeva necessariamente l’escussione dei testimoni, che infatti qui non compaiono. La prima domanda del procuratore è formulata in maniera sarcastica e tradisce il suo disprezzo e la sua incredulità: “Tu sei re?”. Era come dire: “Tu, proprio tu, così modesto e insignificante, pretendi di essere re?”. Come poteva credere che quell’uomo umiliato e deriso avesse dignità regale? Le apparenze e i fatti lo escludevano chiaramente. Percepito il tono ironico del suo giudice, Gesù domanda a sua volta, con grande dignità: “Dici questo da te o altri ti hanno parlato di me?”. Sapere la provenienza dell’accusa significava capire che senso avesse quella domanda. Se la citazione veniva da Pilato, si capiva bene la sua ironia: egli aveva un’idea di re alla maniera corrente, e certo Gesù non era re come lui pensava; non aveva né organizzazione statale, né apparato militare.

Se la denuncia era stata formulata dai giudei, essa lo indicava come un falso messia, uno dei tanti che i romani in quel tempo dovettero combattere, come riferisce Giuseppe Flavio (Guerra giudaica II,13). Pilato taglia corto su questa discussione e domanda a Gesù: “Che cosa hai fatto per essere ritenuto falso messia dalla tua gente?”. Gli sembra strano che siano le stesse autorità giudaiche a volerlo processare come rivoluzionario; in fin dei conti era quello che le gente e forse loro stessi attendevano. Le autorità romane, che avevano spie dappertutto, non lo avevano segnalato come persona pericolosa e a Pilato non risultava nessun episodio di provocazione politica. Ma Gesù non si difende appellandosi alla sua azione didattica pacifica; porta il discorso su un piano più alto di quello politico-militare: “Il mio regno non è di questo mondo”.

Infatti, lui stesso e i suoi seguaci non hanno reagito e non hanno fatto nulla per impedire la sua cattura da parte dei giudei. Gesù descrive la sua regalità straordinaria prima in maniera negativa e poi in maniera positiva. Egli dice di non essere re alla maniera dei sovrani di questo mondo: non ha nessuna reggia, nessuna corte, nessun progetto politico, nessun apparato di potere, nessun sistema di amministrazione governativa. Non ha nemmeno le guardie del corpo che lo difendano. Egli supera ogni stereotipo regale. In maniera positiva, dice di essere venuto piuttosto per testimoniare la Verità di Dio, cioè la presenza del suo regno nel mondo, un regno che non fa concorrenza a quelli mondani, ma è al disopra di tutti e li contesta. Pilato gli aveva chiesto: “Che cosa hai fatto”, egli risponde di aver sempre e solo annunciato che “il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15) con le sue parole e i suoi miracoli. Egli ha incarnato questo regno divino che non è di quaggiù. è il regno che il profeta Daniele ci descrive oggi nella prima lettura: una regalità che viene dall’alto, da Dio creatore e signore del mondo, un potere illimitato e universale a cui tutti devono sottomettersi, un regno definitivo che non sarà mai distrutto.

Un regno che non è basato sulla costrizione, ma sulla conversione che genera convinzione, un regno che ha per fondamento non la forza delle leggi, ma la legge dell’amore. Gesù dirà che la sua autorità non sta nell’essere servito , ma nel servire e dare la vita in riscatto per molti (Mc 10,41-45). Nessun re aveva allora e non avrà mai questo progetto politico. Pilato si trova spiazzato davanti ad una risposta così paradossale, che non comprende, e conclude scettico: “Che cos’è la Verità?”. La festa di oggi ci pone davanti a questa verità da riconoscere e da accettare: “Gesù regna dalla croce, dando la sua vita per amore di tutti noi”. Egli ha rivelato che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui, non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio infatti non ha mandato il suo Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16s).

Nel prefazio della messa diciamo che Gesù sacrificò la sua vita sull’altare della croce, operò il mistero della redenzione e offrì alla maestà del Padre “il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di amore e di giustizia, di amore e di pace”. È questa la Verità sulla quale Gesù chiede di sintonizzarci per ascoltare la sua voce e diventare suoi seguaci più che suoi sudditi, suo amici e fratelli più che suoi servi. Il suo regno è una famiglia divina di figli conosciuti e amati personalmente, di fratelli che si amano e si aiutano reciprocamente. Su questa base umana di collaborazione, il regno di Cristo si inserisce nel contesto della politica per purificarla e rinnovarla. Questo è il compito dei cristiani, che non sono del mondo, ma vivono nel mondo non da estranei.

AUTORE: Oscar Battaglia