Tornano i referendum abrogativi. Riguardano autonomia differenziata, Jobs Act e cittadinanza, per un totale di sette quesiti che ora dovranno superare il vaglio di ammissibilità alla Corte costituzionale. Il responso è atteso per gennaio.
Ma sull’autonomia ci sarà un primo passaggio cruciale già a novembre, quando la Consulta esaminerà i ricorsi che le Regioni guidate dal centro-sinistra hanno presentato utilizzando il canale diretto previsto dalla Costituzione. Perché il procedimento possa avere luogo, esse dovranno innanzitutto dimostrare che la legge Calderoli lede i loro interessi: è un caso giuridicamente molto sensibile, ulteriormente complicato dal fatto che non solo il Governo si costituirà in giudizio per difendere la legge, ma anche il Veneto impugnerà i ricorsi delle altre Regioni.
Ma a cosa è dovuto questo ritorno? Le ultime consultazioni risalgono al 2022, quando sui quesiti in materia di giustizia si raggiunse a stento una partecipazione del 20%, abissalmente lontana dal quorum richiesto. Poi bisogna risalire al 2016, al quesito contro le trivellazioni marine, con un’affluenza che si fermò poco oltre il 30%. La tornata precedente, nell’ormai lontano 2011, fu l’ultima in cui i votanti superarono la soglia del 50% necessaria per la validità della consultazione; in quella circostanza vennero abrogate norme in diversi ambiti, dal nucleare all’acqua pubblica. Da allora, complice il progressivo incremento dell’astensionismo elettorale a ogni livello, il raggiungimento del quorum è diventato un ostacolo quasi insuperabile e questo ha sistematicamente scoraggiato altre iniziative. Come interpretare, dunque, la nuova impennata referendaria?
È un segnale che può essere ricondotto alla crisi della rappresentanza politica tradizionale, ma è anche il sintomo di una vitalità democratica che non trova altri strumenti per esprimersi e coglie le opportunità offerte da iniziative che vanno al di là della pura e semplice dialettica parlamentare tra maggioranza e opposizione. Un dato nuovo è quello della possibilità della firma digitale. Il potenziale di tale innovazione è emerso con chiarezza a proposito del referendum sulla cittadinanza, il cui quesito è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 5 settembre e ha raggiunto il tetto delle 500 mila firme in meno di un mese. Tempi e costi della raccolta delle firme cambiano radicalmente, se basta un click. Il mezzo milione di sottoscrizioni diventa un obiettivo alla portata di molti, anche se poi (ammesso che la Consulta dia il via libera) bisogna portare alle urne 25 milioni di elettori perché la consultazione sia valida.
C’è il rischio di ritrovarsi con referendum a raffica che non conducono a nulla: un terribile boomerang per la partecipazione. Ecco perché si discute dell’ipotesi di aumentare drasticamente il numero delle firme da raccogliere e, allo stesso tempo, di abbassare il quorum nelle urne rapportandolo al numero dei votanti alle ultime elezioni politiche, e non a quello degli aventi diritto in astratto.
Qui, oltre agli aspetti tecnici, si impone una riflessione sul senso complessivo dello strumento referendario in una democrazia rappresentativa. Da un lato, infatti, bisogna scongiurare il pericolo che un uso distorto dei referendum possa indurre una deriva plebiscitaria del sistema; dall’altro la valorizzazione delle forme di democrazia diretta può costituire un utile bilanciamento a fronte di un ruolo sempre più forte dell’Esecutivo, tanto più nella prospettiva di un’eventuale riforma del premierato.
Stefano De Martis