Questo numero de La Voce già dà ampio spazio all’incontro di preghiera tra Shimon Peres e Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sotto la regìa di Papa Francesco con l’apporto del Patriarca Bartolomeo. Quindi non ho bisogno di aggiungere altro; tanto meno di raccontare quale sia stata la mia commozione, visto che sotto la guida di don Elio fui uno dei pionieri del Centro ecumenico di Perugia, cinquant’anni fa (il tempo del Concilio). Mi resta invece lo sgradevole compito di far vedere il bicchiere mezzo vuoto.
È stato bello sentire i due Capi di Stato che dicevano, più o meno: “Ogni popolo ha il diritto di vivere libero e in pace”. Ma si capiva, si sentiva che in quel momento ciascuno dei due pensava alla libertà e alla pace del suo popolo. Intendiamoci, ne avevano tutto il diritto. Se è vero che i palestinesi sembrano schiacciati e minacciati da Israele, è anche vero che Israele è assediato e minacciato dal Continente che lo circonda; e questo può spiegare, anche se non giustifica, la mano dura verso i palestinesi.
Ma perché fosse un vero dialogo di pace, non bastava che ciascuno dei due contendenti dicesse: “Ogni popolo ha il diritto di vivere libero e in pace”; avrebbe dovuto aggiungere subito dopo: “… e questo vale non solo per me, ma anche per il mio avversario”. E proseguire ancora: “Perché questo si realizzi, sono pronto a offrire questo, e a rinunciare a quest’altro; e a chiedere ai miei potenti amici nel resto del mondo di fare altrettanto”.
Queste parole non sono state dette. Si dirà che i gesti erano tuttavia eloquenti, specie quell’abbraccio finale tra Peres e Abu Mazen, che a me è sembrato non previsto (da loro) e un po’ sforzato, ma proprio per questo vale molto come segno. Ma i gesti e i simboli, per quanto importanti, sono generici.
Il fatto è che né l’uno né l’altro poteva dire di più, anche se in cuor suo fosse stato pronto a farlo, e forse lo era. Sono tutti e due leader deboli, ostaggio dei “falchi” che predominano nei rispettivi popoli. La strada è ancora lunga. Davvero bisogna affidarsi a Dio.