Due volte, nelle sue omelie “private” nella cappella di Santa Marta, il Papa ha toccato il tema della corruzione: il giorno 8 novembre e poi l’11. Ne ha parlato come di un peccato imperdonabile (salvo, s’intende, un pentimento che comporti un cambiamento radicale di vita). Ma che cosa intendeva esattamente il Papa con la parola “corruzione”?
La parola può avere un significato stretto e tecnico, oppure un significato ampio e generico. Il significato ampio è quello originale, etimologico. Il latino corruptio si può tradurre come “disfacimento, rovina”, una cosa che riguarda l’organismo nel suo insieme e viene dal profondo, irrimediabile: la casa che crolla perché nulla si regge più, il corpo morto che va in putrefazione. Da sempre la parola viene usata anche in senso figurato per indicare il disfacimento morale. Così si parla di società corrotta, costumi corrotti, persone moralmente corrotte.
Questo è ciò che intendeva il Papa nell’omelia dell’11 novembre, quando ha contrapposto il peccatore, che può essere perdonato, e il corrotto per il quale non c’è perdono possibile, perché il radicamento nel male è divenuto irreversibile.
Nell’omelia dell’8 novembre invece il Papa parlava della corruzione in senso stretto, ossia di quel contratto scellerato fra l’uomo che ha un potere (un politico, un funzionario, un giudice) e il cittadino che lo paga di nascosto perché quel potere sia distorto in suo favore. Così si arricchiscono illecitamente in due. Quella volta il Papa parlava proprio di questo tipo di corruzione: ha definito quelli che la praticano come i devoti della “dea tangente” e ha chiamato “pane sporco” il guadagno che ne deriva.
Qui si ricollegava a un altro tema che ricorre spesso nei suoi discorsi: la sete del denaro – anzi del “dinèro” -, che c’è sempre stata, ma che nel mondo moderno è divenuta l’ossessione di tutti, il grande motore che fa girare il mondo ma lo spinge verso la corruzione (intesa come quella del cadavere putrefatto). Non c’è da essere allegri.